È arrivato lunedì. Il lunedì dell’incontro tra governo e parti sociali. Si dice che si avvicini l’accordo su cassa integrazione, sussidi e apprendistato. Forse facilitato dall’arrendevolezza di Camusso esemplarmente consegnata come una concessione nemmeno troppo sofferta sulla TV senza se e senza ma. Ma il nodo della trattativa rimane la flessibilità in uscita: il governo pensa di eliminare il reintegro obbligatorio in caso di licenziamenti per motivi economici.
Eh si per il governo non devono esserci tabù, mentre invece continua imperterrita l’idolatria dei totem. Soprattutto quelli destinati a testimoniare in terra le divinità dell’ideologia del regime, che non è solo quello della destra montiana, e delle sue categorie: il nuovo, la modernità, la globalizzazione, la new economy ormai invecchiata salvo per Passera che continua a adorarla, o la flessibilità, tutti capisaldi irrinunciabili per colmare il vuoto di un pensiero politico ed economico ridotto alla venerazione pragmatista del profitto e dell’accumulazione.
Tra i totem che sostituiscono idee la flessibilità è quello più in buona salute, nella sua funzione imprescindibile di motore potente della razionalizzazione neo capitalistica, che si esercita attraverso scelte imprenditoriali ed economiche occasionali e variabili, instabili e provvisorie.
Nell’inevitabile avvicendarsi di incremento della produttività richiesto dall’aprirsi di nuovi mercati, e di successiva contrazione della domanda, le imprese hanno scelto la strada più ottusa e anti-strategica: mantenere una quota di forza di lavoro stabile sempre più ristretta per ricorrere a manodopera assunta con contratti precari e (per l’appunto) flessibili per tutta la durata del picco della domanda, e congedarla quando non più necessaria, in una tirannia dispotica e arbitraria oltre che miope. E illusoria, tanto che flessibilità appare sempre di più un delicato eufemismo per definire arbitrarietà, precarietà, in una visione di brevissimo termine e scarsissimi effetti in termini di sviluppo e occupazione se perfino l’Ocse conferma che “la correlazione fra la flessibilità del lavoro e job creation, nei Paesi europei, si può al massimo definire presunta”.
Quello che doveva essere un modello più o meno accettabile e comunque discutibile di organizzazione del lavoro o un ancora più discutibile obiettivo di massimizzazione del profitto d’ impresa è diventato qualcosa di più ambizioso, un progetto per ridisegnare la società ed i rapporti di forza economici e politici, intaccando l’insieme dei diritti che il movimento dei lavoratori, nella versione sindacale ed in quella politica, ha strappato per evitare i licenziamenti facili, per ottenere le ferie pagate, i congedi per malattia e gravidanza, e più in generale per tutta l’ articolazione del welfare. Ma anche per quanto riguarda l’erosione del vincolo sociale che dà vita alle organizzazioni sindacali ma soprattutto il patto inespresso di solidarietà tra lavoratori: il lavoro parcellizzato rende impossibile la vicinanza quotidiana e prolungata, insieme al dialogo e alla comunanza. E incentiva la deresponsabilizzazione dell’imprenditore rispetto alle persone che lavorano per lui, seppellendo per sempre l’ideale olivettiano del superamento della disoccupazione involontaria intesa come la peggiore sciagura che possa capitare ad un essere umano.
L’utopia tecnocratica è disumana e forse anche cretina: il diffondersi della flessibilità disegna una nuova organizzazione delle funzioni lavorative che fa ruotare masse di lavoratori poco o nulla qualificati intorno ad un nucleo sempre più ristretto di occupati stabili, inducendo forme di precarietà di massa insieme a inimicizia, rancore, conflittualità, divisione. E l’ avidità degli investitori e degli azionisti la impiega come diversivo ideologico per distrarre dalla incapacità di affrontare le questioni che riguardano i modi della produzione, la qualità dei prodotti, l’ innovazione tecnologica, la concorrenza, la sicurezza.
Non può piacerci il lavoro che piace al governo, quei costi che riverbera sui lavoratori, sui cittadini, sulla democrazia: precarietà e discrezionalità,indottrinamento ideologico negli interessi dell’ azienda, esigua copertura sindacale, scarsa igiene e poche norme antinfortunistiche e una paga da fame.
Dietro alle ciniche e infelici battute dei ministri che dileggiano le istanze di stabilità, di intravvede la volontà proterva di sferrare un attacco ai diritti sociali acquisiti dalla precedenti generazioni che premurosi studiosi “organici” dipingono come ingiustificabili privilegi dei padri a danno dei figli e che altrettanto solerti riformisti e conformisti, rispettosi della superiorità del credo liberista, accolgono come accettabili, ineluttabili, necessari fino a diventare quasi desiderabili.
L’età dell’oro si trasforma nella febbre della sopravvivenza, sottoposta alla minaccia dell’obsolescenza del lavoratore, dell’incremento del discrimine tra professionalità e lavoro a bassa qualificazione, di crescente marginalizzazione e di irruzione di una moltitudine disposta o costretta ad adattarsi a soluzioni di lavoro insoddisfacenti in termini di carriera e di retribuzione, una folta manodopera servile di riserva, obbligata e soggetta al ricatto, ridotti allo sgradito crumiraggio di supplire progressivamente ai sempre più limitati nuclei sindacalizzati.
C’è chi sorride quando si parla di conflitto di classe: le classi non esisterebbero più… I professori le hanno reintrodotte, torna l’esigenza della lotta e di dare qualche cattivo voto, anzi di non darglielo affatto.