Giulio Andreotti è stato un integralista della Realpolitik, ma non l’ha interpretata con piglio decisionista, bensì con misura e mediazione. Ha sempre preferito l’ombra e il basso profilo per tessere le sue intricatissime ragnatele. Gli storici diranno quale grado di responsabilità abbia avuto nelle vicende più fosche della storia repubblicana, dal caso Moro, alla Loggia P2, alle stragi mafiose dei primi anni ’90, sgombrando il campo da ciò che ha contribuito a renderle non quantificabili, finché è stato in vita: la mitizzazione del personaggio, favorita dal suo aspetto, vero phisique du role del grande e diabolico manovratore.
Le verità giudiziarie emerse dai processi a suo carico, affrontati sempre col massimo rispetto per le istituzioni, ci dicono di un politico sempre aggiornato sulle trame sotterranee, capace di sfruttarle ai fini della propria strategia, ma senza rimanerne impigliato. Andreotti non era uomo che dava ordini, probabilmente non è mai stato un mandante, ma la sua strategia, al tempo stesso spregiudicata e discreta, capace di tenere insieme il diavolo e l’acquasanta, Vaticano, Nato e mafia pre-corleonese, sta alla base di tante devianze del sistema democratico italiano che la seconda Repubblica ha ereditato dalla prima. Appare difficile che la terza riesca a nascere e a muovere i suoi passi senza portare il fardello di questo lascito.
Andreotti non è stato Belzebù, ma un abilissimo politico capace di far volgere a suo favore anche la demonizzazione a cui è stato sottoposto. Non era un genio del male, ma un formidabile interprete di una visione politica che poteva avere ragione d’essere in un sistema democratico imberbe e balbettante. Di quel sistema, lui ha rappresentato la prassi ai livelli più alti.