Lo trovarono che aveva gli occhi chiusi. Lo trovarono che sembrava dormisse. Nonostante il sangue, sembrava dormisse. Aveva un braccio nell’acqua della marana, e i piedi sull’erba, piedi senza scarpe. Era l’ultima cosa che Petar notò, prima che un poliziotto lo allontanasse. Da grande gli sarebbe piaciuto fare il poliziotto, ma aveva smesso di andare a scuola da un anno, era troppo lontana dal campo, doveva svegliarsi alle sei del mattino, e a lui piaceva dormire. Come al suo daddo, e come ai suoi sei fratelli. Petar non aveva sorelle, molte cugine, tante che non riusciva a contarle, ma nessuna sorella. E se ne avesse avuta una l’avrebbe difesa da Hego, perché Hego era un animale, un animale rabbioso, Hego era beng, il diavolo. Hego aveva quasi ucciso suo zio Nicolae, un coltello nella pancia per una battuta che solo Hego aveva sentito. E Hego aveva ammazzato il gaggio trovato alla marana. La notte prima, Petar stava fumando di nascosto una sigaretta, un sigaretta arrotolata col tabacco delle cicche che durante il giorno aveva raccolto per il campo, e aveva visto Hego rientrare nella sua kampina, sporco di sangue, e aveva notato anche quelle scarpe, le stesse della pubblicità di Totti, bellissime, tanto belle che sembrava brillassero nella notte. Ma se lo avesse raccontato nessuno gli avrebbe creduto, perché dicevano che era bugiardo, bugiardo e testardo come gli uomini della sua gente, soltanto che lui non era un uomo, era un bambino. Era solo il figlio più piccolo di un suonatore di fisarmonica. Quando vennero ad arrestare Hego il campo era pieno di poliziotti, e di gente della televisione. Se ne andarono prima del tramonto. A Petar sembrò che la notte arrivò prima del solito, era riuscito a raccogliere tante cicche da arrotolare tre sigarette, tre sigarette grasse e lunghe, se ne sarebbe fumate solo due, l’altra l’avrebbe nascosta sotto i sedili della vecchia mercedes senza motore abbandonata nel campo. Non aveva ancora finito di fumare la prima che sentì arrivare le macchine, e poi vide quegli uomini, dieci gaggi che avevano in corpo lo stesso veleno di Hego. Una bottiglia che traboccava fuoco volò in aria, e i gaggi gridarono “zingari di merda”. Lui lo sapeva che quella gente era arrabbiata per quello che aveva fatto Hego, e lui lo avrebbe detto che Hego lo odiavano tutti, che lo odiava pure lui, che a fare il suo nome alla polizia era stata la stessa moglie di Hego, quella ragazza di cui Petar non ricordava più il volto, perché Hego le impediva di uscire dalla kampina, ma non riuscì a dire nulla di tutto ciò, perché gli fischiavano forte le orecchie, e vedeva tutto rallentato, erano scoppiate le taniche di benzina del gruppo elettrogeno. Prima di addormentarsi gli venne in mente una parola, e quella parola era “porrajmos”, ma non ricordava cosa significasse. Lo trovarono che aveva gli occhi chiusi. Lo trovarono che sembrava dormisse.
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