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Il doppio fronte operativo in Afghanistan. Al via “Azm” la nuova offensiva di primavera dei Taliban e il confronto tra al-Qa’ida e l’ISIS (CeMiSS 3/2015)
Creato il 18 giugno 2015 da AsaGli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici." (*) Claudio Bertolotti, Ph.D, is Assistant Professor of Area Analysis at CSPCO (Turin), Senior Analyst at CeMiSS (Rome), and Italian representative at CEMRES «5+5 Defense Initiative 2015» (Tunis). La situazione generale, in breve
La situazione in Afghanistan è in fase di progressivo peggioramento, in particolare nelle aree a sud e a est del paese.
Il primo quadrimestre del 2015 ha registrato un numero di vittime per operazioni militari superiore dell’8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; per contro, il numero di morti in termini assoluti è diminuito del 2%, sebbene ci sia un aumento del 15% tra le donne e i bambini (fonte UNAMA, United Nations Assistance Mission in Afghanistan).
A riguardo delle forze di sicurezza afghane (ANSF), l’esercito (ANA, Afghan National Army) ha perso oltre 20.000 unità nel 2014 a causa di un aumento di diserzioni, dimissioni e perdite in combattimento; da gennaio a novembre 2014, la forza dell’ANA si è ridotta dell’11%, scendendo a 169.000 unità: il dato più basso dal 2011 (fonte SIGAR, Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction).
Inoltre, il ministero per il contrasto al narcotraffico ha confermato che la produzione di papavero da oppio è cresciuta nell’ultimo anno del 7%; 224.000 sono gli ettari di terra dedicati all’oppio, 132 i distretti interessati, con le province di Helmand, Kandahar, Farah e Nimroz che da sole producono il 65% del totale.
Infine, nuovi attori del conflitto stanno imponendo nuove dinamiche e ritmi le cui conseguenze non sono facilmente contrastabili.
Dichiarazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan sull’avvio dell’offensiva di primavera ‘Azm’
Afghanistan, 24 aprile (anniversario della battaglia di ‘Yarmouk’ che portò alla conquista musulmana della Siria bizantina nel 636 d.c.): contemporaneamente alla decisione statunitense di sospendere la riduzione delle proprie truppe dall’Afghanistan – così come in precedenza pianificato e annunciato – i taliban dell’Emirato islamico hanno ufficializzato l’avvio delle nuove operazioni; la quattordicesima offensiva di primavera che vede confrontarsi sul campo di battaglia il governo afghano, con le sue forze di sicurezza, le residue forze militari occidentali e i gruppi di opposizione armata (GOA), tra i quali un ruolo di primo piano è giocato dai taliban.
Come di consueto, il comunicato è stato diffuso attraverso il sito web dell’Emirato islamico dell’Afghanistan; e come ogni anno l’offensiva è stata presentata come la più vasta e impegnativa operazione militare mai condotta. Con ciò confermando, da un lato, la capacità comunicativa di un fenomeno di opposizione sempre più efficace e aggressivo e, dall’altro, la volontà offensiva di una leadership che ha ben compreso le difficoltà, politiche e militari, di uno Stato afghano sempre più in difficoltà e incapace:
- di garantire un adeguato livello di sicurezza nella maggior parte del paese, in particolare le aree periferiche e rurali e
- di contenere una competizione tra gruppi di potere che potrebbe spingere verso una nuova fase della guerra civile afghana.
L’operazione ‘Azm’ (Risolvere, Perseveranza o Determinazione) – così è stata chiamata dalla leadership dell’Emirato – segue senza soluzione di continuità la precedente e micidiale offensiva del 2014, l’operazione Khaybar, caratterizzata da un massiccio impiego di attacchi suicidi, imboscate, Ied (Improvised explosive device - ordigni esplosivi improvvisati) e le puntate offensive, sempre più numerose, prolungate nel tempo ed efficaci, a cui è seguita la conquista di intere basi militari sotto il controllo delle forze afghane.
La retorica dei taliban, anche quest’anno, ha posto in evidenza esplicitamente gli intenti dell’insurrezione; e non vi è da dubitare che metteranno in pratica quanto minacciato, poiché è sufficiente guardare indietro, al numero di azioni, alle statistiche relative ai danni inferti, per rendersi conto del potenziale militare, delle capacità offensive e della sempre più ampia capacità di controllare le aree periferiche dell’Afghanistan, in particolare il sud e l’est del paese.
La propaganda che accompagna l’avvio dell’ultima offensiva di primavera si concentra sul mancato ritiro delle truppe straniere ‘di occupazione’ – requisito essenziale per l’avvio di qualunque negoziato per la pace – e sull’applicazione dell’accordo di sicurezza tra il Governo afghano, gli Stati Uniti e la Nato (Bilateral Security Agreement - BSA).
Una condanna esplicita va al continuo utilizzo di ‘droni’ per la condotta di attacchi, ai criticati ‘night raids’ che coinvolgono la popolazione civile, e alla subordinazione delle forze di sicurezza afghane; un’occupazione che, ridimensionata nei numeri, avrebbe semplicemente mutato la tattica, ma non l’obiettivo strategico: l’occupazione dell’Afghanistan.
E il richiamo al jihad contro l’occupante straniero, continua così a essere il leit-motiv esplicito della narrativa taliban; taliban che, in linea con una policy pubblica consolidata, continuano a chiedere il ritiro immediato delle residue truppe straniere, la conclusione delle operazioni militari, dell’attività intelligence e delle operazioni speciali, nonché di qualunque forma di influenza negli ‘affari interni all’Afghanistan’.
Fino ad allora, e con l’obiettivo di completare la liberazione del paese e per implementare le ‘giuste regole islamiche’, l’Emirato si dichiara determinato a prolungare il jihad contro gli stranieri e contro tutti coloro che sono disposti a sostenerne le parti – con implicito riferimento alle istituzioni afghane e ai singoli soggetti che collaborano con queste.
I principali obiettivi dell’operazione ‘Azm’, dichiarati e designati dalla leadership dell’Emirato islamico e della ‘Commissione militare’, sono, nell’ordine: le forze di occupazione straniere, le basi militari permanenti, le strutture di intelligence, diplomatiche, obiettivi della compagine statale afghana – in particolare i ministeri degli Interni e della Difesa.
In linea con le tecniche già ampiamente utilizzate, vengono confermate tattiche e procedure tecniche quali attacchi suicidi (il “martirio”), ‘green-on-blue’, azioni a danno dei contractor e contro le infrastrutture militari e di supporto a queste, tecniche di guerriglia urbana.
I taliban, in contrasto con quanto dimostrato dal più recente report delle Nazioni Unite in merito ai danni collaterali e all’uccisione di civili, dichiarano inoltre che il loro obiettivo primario consiste nel salvaguardare la vita e le proprietà delle popolazioni civili. Nel ribadire tale concetto, il comunicato dell’Emirato ribadisce che ogni singolo mujaheddin è responsabile per la propria condotta in guerra e ogni comandante è responsabile per ognuno degli uomini alle proprie dipendenze; chiunque non dovesse attenersi scrupolosamente a tale principio deve essere sottoposto al giudizio sanzionatorio nel rispetto dei codici imposti dal jihad e dalla sharia.
In linea con una retorica propagandistica ormai consolidata, gli obiettivi religiosi e scolastici quali moschee, madrase, università, ospedali, cliniche, edifici pubblici in genere, non rientrano tra quelli che potrebbero essere colpiti dalla nuova offensiva militare; mentre un’interessante apertura è rappresentata dalla dichiarazione di voler agevolare tutte quelle organizzazioni che si occupano, a vario titolo, di benessere, salute e assistenza alla popolazione civile.
Per contro, i taliban avvertono proprio la popolazione civile di tenersi lontana dai possibili obiettivi designati invitando, inoltre, tutti i dipendenti pubblici, i soldati, i poliziotti e coloro che, a vario titolo, collaborano con le forze di sicurezza straniere a colpire ovunque e in qualunque momento i nemici invasori e i loro ‘fantocci’ e a trovare protezione sotto la bandiera dell’Emirato islamico.
Anche la quattordicesima offensiva di primavera si preannuncia, attraverso un messaggio propagandistico pregno di retorica, violenta e indiscriminata; ma un’offensiva che si contraddistingue da tutte le precedenti per il fatto di vedere contrapposti sul campo di battaglia vecchi e nuovo attori: al-Qa’ida e lo Stato Islamico (ISIS/IS, o Daesh).
Infatti, nel caos afghano – e nel più generale quadro dell’Af-Pak-Ind – si sono recentemente imposte nuove dinamiche e nuovi attori hanno fatto la loro comparsa: l’ISIS è uno di questi, a cui si contrappone il riformato movimento di al-Qa’ida nella sua variante del sub-continente indiano. Dinamiche che – come avevamo valutato nell’Osservatorio Strategico 9/2014 a cui si rimanda per un maggiore approfondimento sulla riorganizzazione insurrezionale – hanno portato a una recrudescenza delle conflittualità che deriva da una competizione sfrenata tra i gruppi alla ricerca dell’attenzione mediatica, del risultato eclatante attraverso atti sempre più violenti e spregiudicati, dell’ampliamento del bacino di militanti. La conferma, nei fatti, è venuta con gli episodi di decapitazione di alcuni sciiti afghani di etnia hazara e con l’attacco suicida a Jalalabad del 18 aprile, di cui più oltre si tratterà (entrambi gli episodi prontamente condannati dai taliban e biasimati dall’opinione pubblica afghana).
AQIS, al-Qa’ida nel sub-continente indiano
Come reazione all’espansione dell’ISIS nel sub-continente indiano, nel settembre 2014 al-Qa’da ha annunciato la costituzione di una propria organizzazione jihadista regionale chiamata ‘Qaedat al-Jihad in the Indian Subcontinent’ (AQIS, al-Qaeda in the Indian Subcontinent) –, il cui obiettivo è l’imposizione della legge islamica (sharia) attraverso lo sforzo del jihad in tutto il sub-continente, come elemento di unione di tutti i musulmani dall’India all’Afghanistan, a Burma, al Bangladesh, all’Assam, al Gujarat, all’Ahmedabad e al Kashmir. La nuova ala di al-Qa’ida è formalmente fedele all’alleanza con i taliban afghani del mullah Omar ed è guidata da un soggetti provenienti dagli ambienti taliban pakistani.
Ma nel mirino della missione di controterrorismo statunitense e delle forze di sicurezza pakistane non sono i taliban, bensì i vertici e i membri della neo-costituita AQIS. I taliban afghani, in tale dinamico scenario rimangono un target secondario poiché il vero obiettivo definito, anche sul piano formale, è al-Qa’ida, i suoi affiliati e i competitor radicali (e l’ISIS, tra questi, è certamente il principale).
Perché i taliban non sono l’obiettivo principale?
- In primo luogo, quello dei taliban afghani è un movimento locale, con strette relazioni con al-Qa’ida ma senza ambizioni a livello globale o regionale.
- In secondo luogo, gli Stati Uniti sono impegnati nel tentativo di tagliare le relazioni tra i taliban e i loro supporter esterni (al fine di interrompere una connessione che costituisce un punto di forza per entrambi gli attori).
- Inoltre, i taliban non sono inclusi nella lista delle organizzazioni terroristiche in virtù del loro potenziale, quanto ricercato, ruolo – anche politico – nel futuro dell’Afghanistan.
- Infine, né le forze della coalizione internazionale, né le ANSF hanno dimostrato di essere in grado di poter sconfiggere i taliban.
Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo
Al contrario di AQIS, l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Cor¬inthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
- a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
- a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
- Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
- attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
- concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
- creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.
Analisi, valutazioni, previsioni.
Si prevede un aumento significativo dell’attività dei GOA, sia endogeni sia esogeni, nel breve-medio periodo; in linea con il trend dei passati anni, si valuta come probabile un incremento nel numero e nell’intensità delle azioni contro le ANSF.
Come conseguenza, il governo afghano dovrà affrontare concrete difficoltà nell’avviare il processo di pace in agenda che si basa su un approccio finalizzato a una soluzione politica che veda coinvolti gli stessi GOA.
Inoltre, molti militanti taliban starebbero abbandonando i loro gruppi originari per unirsi con il nascente gruppo dell’ISIS in Afghanistan, sebbene si valuti che solamente una parte degli ‘scissionisti’ abbia deciso di lasciare il campo pakistano (anche in conseguenza dell’offensiva pakistana nella regione del North Waziristan).
Nel complesso, va però considerato che una significativa presenza di foreign fighter in Afghanistan è conseguenza della politica di espansione dell’ISIS nel sub-continente indiano a cui si contrappone la volontà oppositiva di AQIS.
Tali dinamici fattori hanno dato al conflitto afghano una nuova dimensione caratterizzata da maggiore instabilità e più violenza: il tutto si traduce in una sfida ancora più ardua per la Comunità Internazionale e per il debole Stato afghano, incapace di contrastare militarmente i GOA e di contenere le crescenti dinamiche conflittuali che coinvolgono i nuovi e i vecchi attori.
Da una parte l’agenda del governo Ghani-Abdullah prevede l’avvio di un dialogo costruttivo che coinvolga anche il Pakistan in qualità di facilitatore nei confronti dei taliban; ma, come possibile conseguenza della presenza di foreign fighters in Afghanistan, il dialogo con i taliban potrebbe complicarsi a causa delle dinamiche interne al movimento che potrebbero portare a uno scollamento tra la leadership e la base formata da giovani e radicali che opterebbero per l’ISIS.
Un passaggio da un gruppo a un altro che sarebbe indotto da un’efficace campagna di reclutamento, sia tradizionale sia moderna attraverso un ampio utilizzo dei social-media, in Pakistan e in Afghanistan.
Inoltre, crescono il ruolo e le ambizioni regionali dell’Iran come possibile conseguenza, da un lato, del dialogo sul nucleare con gli Stati Uniti e, dall’altro, dell’impegno di Teheran nel contrasto all’espansione dell’ISIS in Syraq e, verosimilmente, anche in Afghanistan; come recentemente annunciato dal ministro degli Interni iraniano Abdolreza Rahmani Fazli, l’Iran è pronto a fare la sua parte in operazioni di controterrorismo al fianco di Pakistan e Afghanistan. Questa è una significativa possibilità che potrebbe aprire a una nuova fase del ruolo iraniano a livello regionale.
In conclusione, è ormai un dato di fatto che l’ISIS stia espandendo le proprie capacità in Afghanistan. Analizzando lo sviluppo del fenomeno attraverso la doppia prospettiva del ‘tempo’ e dello ‘spazio’, è necessario che i decisori acquisiscano la consapevolezza che per contenere, contrastare e sconfiggere l’ISIS è prima di tutto fondamentale agire ovunque questo esista, affrontandolo come una minaccia collegata a livello transnazionale e globale. È altresì necessario non commettere l’errore di analizzare gli eventi e le azioni violente nell’intera area MENA come fattori tra di loro separati: ogni singolo evento, sebbene non coordinato, è parte di un ampio piano politico basato su principi ideologici, rivoluzionari e distruttivi.
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