Magazine Cultura

Il dotto e l’artista

Creato il 05 aprile 2011 da Fabry2010

di Antonio Sparzani
Il dotto e l’artista

Una curiosa appendice a questo post dell’agosto scorso, mi offre l’occasione per riportare alla luce una riflessione di Gottfried Benn (1886 – 1956) sulla poesia e, in particolare, su differenze e relazioni tra la figura del dotto, l’intellettuale, e quella dell’artista. Il 21 agosto 1951 Benn tenne una conferenza all’università di Marburg sul tema “Problemi della lirica” (Probleme der Lyrik), il cui testo fu nello stesso anno pubblicato dalla Limes Verlag di Wiesbaden. Ora è contenuto nel primo volume delle opere di Benn (Gesammelte Werke in vier Bänden, hrg. Dieter Wellershoff, Limes Verlag, Wiesbaden 1960). In questa conferenza, Benn si occupa della figura del lirico, l’«io lirico», sottolineando le differenze tra il dotto e l’artista. En passant ci confida una circostanza abbastanza stupefacente sulla stesura di Welle der Nacht, per quanto riguarda la sua “data di composizione”. Ascoltiamolo (la traduzione dal tedesco, non perfetta, a mio parere, è di Luciano Zagari, dal volume Gottfried Benn, Saggi, Garzanti, Milano 1963, pp. 231‒233):

« … … Ora dobbiamo guardare negli occhi colui che dà luogo a tutto ciò, l’Io lirico direttamente, en face e in condizioni di assoluto rigore. Di che natura sono questi lirici, psicologicamente, sociologicamente, come fenomeno? Prima di tutto, contrariamente all’opinione comune, non sono dei sognatori, gli altri possono sognare, loro sono utilizzatori di sogni, persino i sogni debbono in definitiva portarli alla parola. Propriamente non sono neanche degli uomini spirituali, degli esteti, l’arte la fanno, cioè essi hanno bisogno di un cervello duro, massiccio, un cervello con denti incisivi, capace di frantumare le resistenze, anche quelle loro proprie. Sono dei piccoli borghesi con un particolare impulso, nato a metà dal vulcanismo e a metà dall’apatia. Nel campo dei rapporti sociali sono perfettamente privi di interesse — Tasso a Ferrara —, son finite queste cose, niente più Leonore [eccoli qua, Torquato Tasso ed Eleonora d’Este, n.d.r.], niente corone d’alloro che mutano fronti. Ma non sono neanche degli assaltatori del cielo, dei Titanidi, per lo più sono assai quieti, intimamente quieti, non possono certo voler portare a termine tutto in una volta sola, bisogna continuare a portare in sé i motivi per anni, si deve saper tacere. Valéry tacque per vent’anni, Rilke non scrisse per quattordici anni alcuna poesia, poi apparvero le Elegie Duinesi. Pensate a un parallelo nel campo musicale: dapprima ci fu il Lied «Sogni», su parole della Wesendonck [allude alla poetessa tedesca Mathilde Wesendonck, vedi qui, n.d.r.], poi, dopo anni, ne venne fuori il secondo atto del Tristano.

E solo per motivi locali, dato che io mi trovo davanti a voi e parlo dell’argomento, aggiungo un ricordo personale, solo per mostrarvi la lentezza della produzione: nel mio volume di poesie «Poesie statiche» c’è una poesia, composta solo di due strofe, ma fra le due strofe ci sono vent’anni di distanza, la prima strofa l’avevo già, mi piaceva ma non riuscivo a trovarne una seconda, poi finalmente, dopo due decenni di tentativi, di esercizi, di esami, di rifiuti, mi è riuscita la seconda, è la poesia «Onda della notte» [appunto Welle der Nacht, n.d.r.] — così a lungo si deve portare una cosa internamente, un arco così ampio è sotteso a volte a una poesia così piccola.
Allora, che cosa sono i lirici? Originali, abitatori di stanze singole, essi lasciano perdere l’esistenza per esistere, indifferenti se gli altri definiscono una poesia una storia di ciò che non è accaduto e definiscono egoismo la maestria. A dire il vero essi sono solo delle apparizioni e una volta che queste apparizioni sono morte e le si toglie dalla croce, bisogna onestamente riconoscere che sulla croce ci si sono messi da soli — che cosa ve li ha costretti! Qualche cosa deve pure averli costretti.
Per avvicinarvi questo tipo anche da un altro lato, vorrei ancora attirare la vostra attenzione su un altro fatto.

Cercate di rappresentarvi quale fondamentale differenza ci sia fra il pensatore e il poeta, il dotto e l’artista che invece dal pubblico vengono sempre nominati insieme, messi nello stesso mazzo come se ci fosse una sostanziale identità. Tutt’altro! Totalmente abbandonato a se stesso, l’artista. Un libero docente lavora sulle leghe di rame utilizzate in Europa duemila anni fa, a sua disposizione ci sono analisi dal 1860 al 1948, in numero di 4729; a disposizione ha una letteratura critica, opera tutta di ordinari di fama riconosciuta, della quale si può fidare, tutte insieme circa tremila pagine. Attraverso il servizio internazionale delle biblioteche si informa di ciò che si pensa oggi a Cambridge dei minerali di rame grigio, apprende da schede del servizio internazionale universitario di ricerca, le quali appaiono trimestralmente, dove e chi lavora in altri paesi sullo stesso argomento. Scambio di opinioni, corrispondenze — si assicura, si accerta, fa poi forse un mezzo passo avanti, documenta questo mezzo passo con pezze d’appoggio, non appare mai solo e abbandonato a se stesso. Nulla di tutto ciò nell’artista. Egli sta solo, abbandonato al silenzio e al ridicolo. Egli
ha responsabilità di se stesso. Egli comincia le sue cose ed egli le porta a termine. Segue una voce interna che nessuno ode. Non sa donde venga questa voce, né ciò che essa in definitiva voglia dire. Lavora da solo, il lirico lavora particolarmente solo, perché in ogni decennio vivono sempre solo pochi grandi lirici, dispersi nelle varie nazioni, poetando in lingue diverse, per lo più sconosciuti gli uni agli altri — quei phares, fari, come li chiamano i francesi, quelle figure che illuminano per lungo tempo il gran mare della creazione ma restano, essi, nelle tenebre.

Ecco, c’è un io siffatto che si dice: io oggi sono così. Questo stato d’animo è presente in me. Questa mia lingua, diciamo la lingua tedesca, è a mia disposizione! Questa lingua con la sua tradizione secolare, con le sue parole coniate dai lirici predecessori, gravide di significati e di atmosfere stranamente cariche. Ma anche le espressioni slang, le forme di argot, Rotwelsch [sorta di argot della mala tedesca e svizzera, n.d.r.] introdotte nella coscienza linguistica dai colpi di due guerre mondiali, completate da parole d’origine straniera, citazioni, gergo sportivo, reminiscenze antiche, tutte sono in mio possesso. L’Io di oggi, che impara più dai giornali che dalla filosofia, che è più vicino al giornalismo che alla Bibbia, per cui una canzonetta di classe ha più valore secolare di un mottetto, che crede piuttosto a un certo svolgimento fisico delle cose che a Nain o a Lourdes, che ha sperimentato che come uno si stende così resta e nessuno gli rimbocca le coperte ‒ questo Io lavora a una specie di miracolo, una piccola strofa, la creazione di una tensione fra due poli, l’Io e il suo patrimonio linguistico, lavora a un’ellissi le cui curve dapprima tendono a discostarsi ma poi si sprofondano senza turbamento l’una nell’altra.

Ma tutto ciò è ancora troppo esteriore, dobbiamo continuare a domandare. Che cosa c’è dentro, quali realtà e sovrarealtà si nascondono in questo Io lirico? In tal modo veniamo a contatto con dei problemi. Questo Io lirico sta con le spalle al muro per difesa e per aggressività. Si difende contro il «centro» della gente media che avanza. Lei è malato, dice questa gente media, non è una vita intima sana. Lei è un degenerato — da dove viene lei, insomma?
I grandi poeti degli ultimi cent’anni vengono dai ceti borghesi, risponde l’Io lirico, nessuno era tossicomane, criminale o è finito per mano propria, facendo eccezione per i poètes maudits francesi. Ma il vostro «malato e sano» mi sembrano concetti tratti dalla zoologia, coniati da veterinari. Gli stati di coscienza in essi non hanno affatto posto. Le diverse forme di stanchezza, i mutamenti ingiustificati di stato d’animo, le oscillazioni diurne, il bisogno ottico di verde, all’improvviso; l’ebbrezza ad opera di melodie, il non poter dormire, le repulsioni, i malesseri, gli alti sentimenti come le distruzioni — tutte queste crisi della coscienza, queste stigmate del tardo Quaternario, tutta questa sofferente intimità non viene colta da questi concetti.»



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazine