L’Italia e la Grecia stanno entrando in una nuova fase del loro “iter fallimentare”, silenziosamente avviato dalla BCE: la fase dell’espropriazione dei beni per ripagare i creditori. L’Italia perderà così le sue residue capacità strategiche, entrerà in una fase economica di crisi ancor più dura, e sarà retrocessa nella gerarchie internazionali.
È un istituto giuridico comune, noto a tutti, quello del “fallimento”. Il debitore incapace di pagare i propri crediti incorre in alcune misure coercitive. V’è – ma non più in Italia – la “amministrazione controllata”: il Tribunale vigila sul debitore, tramite un apposito commissario, affinché prenda le misure atte a ripagare i creditori (ossia ad essere “solvente”). Laddove si giudichi impossibile pagare i debiti – cioè si verifichi lo stato di insolvenza – il debitore dichiara fallimento: i beni pignorabili gli sono espropriati a forza e vengono distribuiti tra i creditori.
Ciò che vale per le imprese e per i privati, vale anche per gli Stati – sebbene con qualche modificazione. Gli Stati, in quanto sovrani, non sono sottoposti ad un’autorità superiore legittimata ad emanare sentenze e a farle rispettare anche con misure coercitive. Esistono un diritto internazionale ed organizzazioni internazionali, che però dipendono per la loro efficacia o dalla buona volontà degli Stati, o dalla capacità di uno o più Stati di far rispettare ciò che sanzionano.
Uno Stato può quindi indebitarsi: i creditori potranno essere altri Stati, o banche e privati – ma i cui interessi generalmente sono difesi dagli Stati d’appartenenza – o ancora istituti internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) o la Banca Mondiale (BM). Ed uno Stato può aver difficoltà e ripagare i debiti, o anche giungere all’insolvenza. A questo punto, però, sorgono le differenze rispetto alle sorti di imprese e privati in condizione analoga. Il creditore non ha un tribunale cui rivolgersi. Vi sono dunque due vie: quella coercitiva, e quella consensuale.
Era frequente nell’Ottocento che i ricchi paesi creditori agitassero la minaccia dell’uso della forza per costringere i paesi debitori a pagare, a qualsiasi costo. Talvolta si passava alle vie di fatto: l’Egitto fu conquistato dai Britannici proprio per un affare di debiti. Oggi l’invasione di un altro Stato per riscuotere i crediti è caduta in disuso, ma qualcosa d’analogo lo si fa (tipicamente verso gli Stati del Terzo Mondo) ricorrendo a golpe e rivoluzioni orchestrati dall’esterno: si rovescia il governo riottoso ed insolvente e lo si sostituisce con uno pronto a pagare i debiti anche a costo di far morire di fame i suoi cittadini.
Questa soluzione non è però facilmente praticabile, soprattutto quando lo Stato debitore sarebbe capace di difendersi, o quanto meno di far pagare a caro prezzo un attacco militare. Allora si tratta: creditori e debitori si siedono attorno ad un tavolo. Lo Stato debitore, godendo del vantaggio – rispetto al privato o all’impresa debitore – di potersi difendere dalle misure coercitive, riesce talvolta a spuntare condizioni favorevoli. Sei anni fa l’Argentina procedette alla “ristrutturazione” del proprio debito: in parole povere, non potendo realisticamente ripagare il debito accumulato, lo rinegoziò coi creditori, concordando con essi i nuovi importi da versare, sensibilmente più bassi di quelli originari.
Spesso però i dirigenti degli Stati debitori non riescono o non vogliono a strappare simili concessioni. È il caso dell’Italia e pure della Grecia (malgrado quest’ultima abbia ottenuto almeno il condono d’un quarto del debito, detenuto dalle banche).
Per Roma e Atene si è avviata la versione statuale dell’iter fallimentare. Dapprima l’amministrazione controllata: la Banca Centrale Europea (BCE), rappresentante innanzi tutto delle grandi potenze europee e della finanza occidentale, ed in misura minore il FMI, hanno dettato ai governi le misure da adottare, ed hanno vigilato sulla loro applicazione.
I risultati non sono apparsi soddisfacenti. In Italia Berlusconi è apparso troppo reticente a portare avanti l’agenda fissata dalla BCE. In Grecia Papandreu, in un sussultò di lealtà al regime democratico formalmente in vigore, ha immaginato di sottoporre il pacchetto di misure all’approvazione popolare. Entrambi hanno avuto, politicamente, vita breve.
In Grecia Papandreu ha dovuto fare repentinamente marcia indietro; prima di dimettersi ha licenziato tutti i vertici delle FF.AA., una decisione con cui forse ha voluto lasciare un indizio su cosa fosse successo dietro le quinte. Il governo è stato ora affidato a Lucas Papademos, un economista formatosi negli USA, ex dipendente della Federal Reserve Bank of Boston (una branca della banca centrale statunitense) e vice-presidente della Banca Centrale Europea. A lui il compito di mandare avanti il pacchetto di “riforme” neoliberali che la BCE ha imposto alla Grecia.
In Italia Berlusconi è dimissionando, e appare quasi certo che a sostituirlo sarà Mario Monti. Anche lui economista con una formazione nordamericana, come Papademos ha servito in Europa, benché non alla BCE ma alla Commissione Europea. È consigliere, oltre che della Coca-Cola Company, della banca privata statunitense Goldman Sachs, già datrice di lavoro di Romano Prodi e Mario Draghi (ma anche di Henry Paulson, il segretario al Tesoro USA che decise di lasciar fallire Lehman Bros.) e non priva di responsabilità negli attuali problemi della Grecia.
Quale ruolo ricoprano Papademos e Monti nell’iter fallimentare di Grecia è Italia si può comprendere dalle ricette prescritte dalla BCE. Oltre ad una serie di misure neoliberali – dai “licenziamenti facili” alla diminuzione dei salari – il cui risultato ultimo sarà di contrarre i consumi (e con essi la domanda, gl’investimenti, il PIL, il reddito ed in ultima istanza anche le entrate fiscali) le richieste vertono sulla parola-chiave della “privatizzazione”. La dismissione del patrimonio statale per pagare i debiti: nient’altro che il pignoramento e l’espropriazione di cui sopra, i quali non potendo effettuarsi per via coercitiva come coi privati insolventi, sono affidati ad un “liquidatore” posto a capo del governo del paese fallito. Con il tacito consenso dei suoi dirigenti, e quello più o meno consapevole della popolazione.
I richiami alla “responsabilità” ed alla difesa del “interesse del paese”, che si susseguono in questi giorni, non bastano a coprire la triste realtà: che l’Italia sta per perdere quel poco controllo che le rimaneva su settori strategici per la forza e prosperità nazionale (approvvigionamento energetico, produzione d’armamenti, raccolta del risparmio nazionale); che l’economia italiana sarà soffocata dall’esiziale combinazione di tassazione “scandinava” e servizi “all’americana” (ossia pressione fiscale altissima, e servizi sociali scarsi o assenti). Soprattutto, che un’alternativa c’era (vedi Morire per il debito?, 15 agosto), ma non è stata nemmeno presa in considerazione. È davvero per l’interesse dell’Italia, come si proclama a gran voce, che i nostri dirigenti stanno agendo in questi giorni?
* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e redattore di “Eurasia”. È autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore di Capire le rivolte arabe (Roma-Dublin 2011).
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