Bunuel ci regala uno dei suoi ulteriori capolavori di surrealismo e ironia, scardinando i meccanismi e svelando i vizi della borghesia cui la maggior parte di noi appartiene e vi riesce attraverso una reiterazione dell'atto quotidiano e necessario della consumazione impraticabile del pasto, non come semplice sostentamento per il corpo, ma come rituale in cui la borghesia consuma la sua quotidiana pulsione di potere e disvelamento delle proprie miserie umane.
Bunuel crea un cortocircuito continuo grazie all'impossibilità di fruizione della cena tanto agognata dai suoi protagonisti, personaggi di dubbia moralità, attraverso cui si appalesano tutti i vizi, le idiosincrasie, le ipocrisie di una classe sociale e dei suoi accoliti, nonché di quei poteri che attorno ad essa si aggirano, attraverso una carica ironica e irriverente ineguagliabili.
Il regista evita proprio quella retorica tipica della critica di un sistema o di un potere mediante il surrealismo di cui è maestro, inserendovi immagini ipnagogiche che divengono indistinguibili dalla realtà, ma che dimostrano ogni volta la stoltezza di un mondo che non pare trovare una redenzione, nemmeno nella fede di cui gli stessi vicari dovrebbero farsi portatori e sostenitori per poi cedere come gli stessi borghesi alle proprie pulsioni umane e terrene, spesso discutibili.