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Il fenomeno dell’oil bunkering: il caso della Nigeria

Creato il 16 febbraio 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Sarah Wafiq

Il termine “oil bunkering è oggi usato per indicare l’appropriazione indebita e il commercio illegale del petrolio [1], un fenomeno che comporta ogni anno la perdita di miliardi di dollari da parte delle compagnie petrolifere colpite. Nel caso quest’ultime siano sotto il controllo totale o parziale del proprio governo, il danno va ben oltre i meri interessi corporativi: viene sottratto denaro destinato alle casse pubbliche per offrire servizi alla collettività, finanziare iniziative sociali e umanitarie, costruire infrastrutture quali scuole ed ospedali, etc. In teoria, non dovrebbe essere complicato arginare questi furti illeciti: basti pensare alla difficoltà nel nascondere un’autocisterna, nonché alla facilità con cui identificarne il proprietario. Tuttavia, la pratica mostra uno scenario differente: dietro alle attività di oil bunkering si cela spesso un sistema estremamente ben organizzato, alimentato da interessi economici e/o politici. Casi di oil bunkering sono oggi riscontrabili in Messico, Indonesia, Iraq e Russia [2], ma l’area più colpita al mondo rimane da molti anni la Nigeria.

Costituzionalmente, il governo nigeriano è l’unico proprietario dei giacimenti di petrolio e gas naturale localizzati nel sottosuolo del proprio Paese. L’estrazione e la produzione di idrocarburi da parte di attori esterni è consentita solo previo accordo contrattuale con il governo di Abuja. Ciononostante, il fenomeno illegale del bunkering riguarda circa il 20-25% della produzione petrolifera giornaliera attuale del Paese africano. Considerando tale natura illecita, azzardare una stima non è facile, ma, secondo J. Gaskia [3], la perdita negli ultimi due anni è stata di 400.000 barili al giorno, per un totale di $14 miliardi l’anno. Il petrolio sottratto illegalmente risulta essere poi venduto a prezzi scontati a raffinerie locali o situate in altri Paesi dell’Africa Occidentale, quali ad esempio la Costa d’Avorio [4] e il Camerun (Immagine 2). L’appoggiarsi indebitamente a infrastrutture costruite e mantenute dal governo nigeriano o da compagnie petrolifere straniere che operano in Nigeria, permette ai trafficanti, detti anche bunkerer, di evitare spese operative e di capitale, riuscendo così a ricavare profitti importanti nonostante un prezzo di vendita inferiore rispetto a quello di mercato.

La contesa per il predominio sul racket del petrolio di contrabbando è spesso sfociata alle violenze nel Delta, lo Stato federato nigeriano che, possedendo da solo il 95% delle riserve di tutto il Paese, è chiaramente più soggetto a questo tipo di traffici. Gli scontri non sempre sono di matrice politica, ma talvolta economica. Una ragione, quest’ultima, che non dovrebbe stupire se si pensa alle parole pronunciate lo scorso aprile da Jim Yong-kim, Presidente della World Bank: «La Nigeria è il terzo Paese al mondo per numero di poveri, dove vive il 7% dei poveri del globo». Ad aggravare tale status sociale ha influito nondimeno il fatto che la Nigeria ha subìto per anni lo sfruttamento delle proprie risorse da parte di compagnie petrolifere straniere che, oltre a violare diritti ambientali, spesso non hanno redistribuito equamente i ricavi delle rendite petrolifere con i governi locali, portando, infine, alla nascita di movimenti militanti, quali ad esempio il Movement for the Emancipation of the Niger Delta (MEND), che denunciano lo sfruttamento ambientale e l’oppressione umana verificatisi nel Delta. Questo movimento, come altri gruppi autoctoni in Africa e nel mondo, chiedono maggiore responsabilità sociale d’impresa e propongono una revisione della distribuzione dei profitti legati agli idrocarburi in favore delle frange più povere della popolazione [5]. Allo stesso tempo, però, è capitato che militanti più estremisti commettessero azioni estreme come il sequestro di dipendenti di compagnie petrolifere, complicando così ulteriormente il quadro della situazione nella regione e le rivendicazioni degli stessi movimenti.

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Numero di attacchi contro oil & gas pipeline in Nigeria – Fonte: Index Mundi

Da quando, nel 1977, è stata fondata la compagnia petrolifera nazionale Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), e da quando, nel 1999, il governo civile si è sostituito all’amministrazione militare, i nigeriani hanno preso sempre più coscienza del proprio potenziale energetico e la loro industria petrolifera è diventata maggiormente competitiva su scala internazionale: ad oggi, in Nigeria, l’oro nero copre oltre il 90% delle esportazioni e dei guadagni forex, portando a circa il 70% il valore delle entrate nazionali totali derivanti dal petrolio. Questi dati fanno si che la Nigeria di Muhammadu Buhari sia il primo produttore di petrolio in Africa, nonché il tredicesimo nel mondo [6]. Il rovescio della medaglia dell’avere un’economica monolitica di questo tipo e di strutturarsi come un rentier state è che il benessere della popolazione e lo sviluppo della nazione dipendono esclusivamente (a) dal prezzo al barile e (b) dalla quantità di petrolio prodotta. In considerazione di tutto ciò e tenendo presente la scarsa influenza della sola Nigeria nel palcoscenico OPEC, il governo centrale nigeriano si è impegnato attivamente nel cercare nuove strategie al fine sia di contrastare il fenomeno dell’oil bunkering, sia di garantire la sopravvivenza della sua già compromessa economia nazionale – gravata dal calo del prezzo del greggio, attualmente ai minimi storici, tanto da costringere il Paese a chiedere aiuto alla Banca Mondiale per ottenere un prestito necessario a tamponare la conseguente crisi delle riserve –, e quindi della Repubblica Federale della Nigeria.

Nel 2001, con l’istituzione del Comitato Speciale di Sicurezza da parte dell’allora Presidente Olusegun Obasanjo, il governo nigeriano sembrava avere mosso i primi passi verso una lotta decisa al fenomeno criminale, ma ciò non diede poi adito ad una strategia governativa proattiva in grado di smantellare completamente il racket del bunkering. Per esempio, nonostante la confisca da parte del Comitato di alcune imbarcazioni usate dai trafficanti, non è chiaro quale sia stato il destino del loro carico. Inoltre, alcuni degli arrestati furono rilasciati prima che le investigazioni portassero ai vertici dell’organizzazione criminale. Infine, le compagnie petrolifere hanno detto di avere spesso riferito alle autorità locali circa i movimenti sospetti di imbarcazioni sconosciute, ma senza che nessun provvedimento venisse poi preso. Nel 2003, invece, sempre sotto l’amministrazione Obasanjo, vennero stipulati contratti con le raffinerie della Costa d’Avorio per disincentivarle ad acquistare petrolio nigeriano dalla dubbia provenienza, ma anche questa misura non ebbe gli effetti sperati, poiché non fu applicata a tutti gli Stati acquirenti di greggio, probabilmente di natura illegale. Da quel momento, i vari governi che si sono susseguiti ad Abuja hanno prediletto la militarizzazione del Delta. Nel 2008, per esempio, venne schierata una Joint Task Force (JTF) costituita da marina militare, esercito e forze paramilitari, con il compito di lanciare offensive ai ladri di greggio. Nonostante il sequestro di alcune imbarcazioni e la redazione di una lista di sospetti, anche in questo caso la JTF non raggiunse il traguardo sperato.

Dopo che, tra il 2007 e il 2009, si verificò un’escalation delle attività criminali legate al contrabbando di petrolio e al sequestro di lavoratori impiegati dalle compagnie petrolifere estere, l’allora neo-eletto Presidente Goodluck Jonathan implementò misure simili ai suoi predecessori – pattugliamento armato degli oleodotti/gasdotti e dei confini a rischio, nonché accordi con Stati potenzialmente interessati agli idrocarburi a basso costo – ma con la differenza che nel 2014, per la prima volta, rivolse un appello anche all’UE e agli USA per invitarli a prestare attenzione al momento dell’acquisto di petrolio nigeriano, dato che gran parte di ciò che è prodotto illegalmente alla fine finisce comunque sui mercati legali.

La difficoltà nel debellare questo tipo di fenomeno criminale è indubbiamente riconducibile alle connivenze più o meno lecite ed evidenti tra rappresentanti delle istituzioni legali e trafficanti di petrolio [7]. Inoltre, non è raro che polizia, militari e lavoratori delle compagnie petrolifere siano, talune volte, coinvolti in prima persona nelle attività di bunkering o comunque corrotte per nascondere tracce o evidenze che riportino a operazioni illecite più sofisticate. Infatti, esistono tre modi di eseguire le operazioni di oil bunkering:

  • Il furto su piccola scala: gli oleodotti vengono tagliati o comunque rotti, e il petrolio in essi contenuto viene messo in dei barili e trasportato presso raffinerie illegali. Il processo di raffinazione prende circa sei ore e permette di ottenere diesel, cherosene e benzina. Gli scarti della raffinazione vengono infine riversati nei corsi d’acqua o in mare. Questo tipo di furto viene eseguito soprattutto da civili.
  • Il furto su media scala: i bunkerer attaccano una propria pompa all’oleodotto in questione, e la usano per dirottare temporaneamente il flusso di idrocarburi verso chiatte e piccole imbarcazioni nascoste dalla folta foresta di mangrovie, le quali hanno poi il compito di portare il petrolio a grandi navi che le aspettano in alto mare. Questa tipologia di furto richiede l’intervento di dipendenti della compagnia colpita, di trafficanti e di commercianti in nero. Chi ruba in prima persona viene spesso ricompensato con armi o soldi.
  • Il furto su larga scala: (a) il petrolio illegale viene portato ai terminal e imbarcato come fosse un prodotto legale, oppure (b) il petrolio legale viene sottratto da cisterne che si trovano al terminal e caricato su autocarri. In entrambi i casi, è fondamentale poter contare sulla complicità di colletti bianchi.
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L’articolato processo delle operazioni di oil bunkering – Fonte: BQ Magazine

Le compagnie petrolifere sono pertanto vittime ignare di tali atti vandalici, almeno fino a quando non verrà segnalata un’incongruenza tra i litri di greggio che risultano estratti e quelli di fatto in proprio possesso. Oltre al danno economico associato alla perdita di idrocarburi, la cui produzione è forse la fase più costosa per le compagnie, quest’ultime devono talvolta affrontare anche il costo dei danni causati dai bunkerer alle loro preziose infrastrutture. A causa di questi furti perpetrati, la Nigeria di Buhari deve oggi limitare le proprie esportazioni di greggio a 2 milioni di barili al giorno, contrariamente ai 2,5 milioni pronosticati, perché esportare maggiormente significherebbe metter mano alla propria scorta nazionale. Atti di vandalismo e furto di idrocarburi implicano, tra le altre cose, uno scoraggiamento degli investimenti da parte di compagnie estere, ovvero un aumento del tasso di disoccupazione in Nigeria, con evidenti rischi inoltre per la sempre estremamente fragile tenuta sociale interna.

* Sarah Wafiq è MSc Oil & Gas Management (Coventry University) & OPI Contributor

[1] Letteralmente, il termine “bunkering” significa caricare una nave con dei bunker, laddove per “bunker” si intende il carburante usato. Ciò deriva dal fatto che, in passato, quando le navi andavano a carbone, la carbonaia si chiamava appunto bunker. Di conseguenza, l’espressione “oil bunkering” potrebbe anche essere usata con accezione positiva, riferendosi al fatto di rifornire una nave di carburante. Tuttavia, oggi è più comune sottintendere l’aggettivo “illegaloil bunkering, che invece ingloba tutto ciò che è furto, contrabbando, carico non autorizzato, etc. di petrolio.

[2] Il numero di barili che finiscono nella rete dell’illegalità risulta oscillare tra i 5.000 e i 10.000 al giorno in Messico, e tra i 2.000 e 3.000 al giorno in Indonesia.

[3] J. Gaskia, Crude Oil theft, Organized Crime, The Niger Delta Environment and The National Economy, Sahara Reporter, 2013.

[4] L’ex Ministro dell’Energia ivoriano, Léon Emmanuel Monnet, ha ammesso che gran parte del greggio che affluisce nel suo Paese dalla Nigeria è di origine illegale.

[5] Ancora oggi la regione del Delta, che, come già menzionato, possiede il 95% delle riserve petrolifere dell’intera Nigeria, rimane la più povera e meno sviluppata del Paese. Molti dei suoi 31 milioni di abitanti non godono di elettricità, acqua potabile o altri servizi basilari. Inoltre, la popolazione subisce in prima persona le conseguenze negative legate all’estrazione e produzione di idrocarburi: perdite di petrolio o fuoriuscite di gas comportano la distruzione dell’ambiente, la contaminazione dei terreni coltivati e seri danni alla salute umana. Ebbene, sono esattamente queste ripercussioni che hanno portato alla nascita di gruppi militanti quali il MEND.

[6] I dati più recenti forniti dall’EIA risalgono all’anno 2014 e collocano la Nigeria tra i primi tredici produttori petroliferi al mondo con un totale di 2.428.000 barili prodotti giornalmente.

[7] Stando all’ultima classifica stilata in base all’indice di percezione della corruzione, nel 2014 la Nigeria si è posizionato 136° nel mondo.

Photo credits: grimotnanezine.com

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