Quando Virginia bussa, vigorosamente, alla mia porta lo scenario dentro il quale giaccio accasciata è più o meno questo: alla mia destra, sul fratino di legno ci sono la macchina fotografica, a testa china e l’aria leggermente mortificata, l’obiettivo macro dritto come un fuso, cucchiaini e tovagliette in ordine sparso, piccoli graspi di ribes, qualche chicco rotolato con impudenza ai bordi opposti del tavolo, minicakes di crema e ribes dall’aspetto voluttuoso. Vanesie, le tortine civettano ammiccanti al niente che le guarda.
Alla mia sinistra, sul tavolino basso, la “Bibbia” del La Rousse sulla pasticceria francese, alcune pubblicazioni prese alla FNAC di Nizza, appunti e quadernetti, lacrime sparse.
In mezzo io, accasciata a terra a mò di sacchetto di patate ammuffite, gli occhi ripieni di cupa disperazione.
Virginia ha le chiavi perciò apre da sola.
“Aahò, anvedi!!! Bone ste….tortine…ma che so?” poi mi vede, in terra e frena l’impeto di lussuria. Mi guarda aggrottando la fronte: “ ‘A piccolè, ma c’hai fatto? Aho, e che è mò sto piagnisdeo?”
Virginia sposta abilmente i suoi 150 chili verso di me e mi tira su come fossi una scatoletta di tonno vuota.
“Nnamo, dai, lavate sto musetto, datte nà rinfrescata” Sentirmi trattare come faceva mia nonna quando avevo otto anni mi fa provare un brivido di conforto rassicurante. L’aria mi sembra più leggera.
“A piccolè, guarda che faccetta. Ma hai dormito stanotte? Aho, te lo stai a stancà troppo, sto cervelletto, già t’o ho detto. Quannè che te vai a pija n po’ de sole, che me pari Berfagor”
Rido e la correggo: “Belfagor”
Assaporo il “piccolè” che mi fa sentire esile e magra senza esserlo, che mi fa sentire piccola e giovane senza esserlo, questo donnone mi fa sentire un elfo.
“Ma ste tortine, aho, bbone, che so?”
Virgina alla gola non resiste proprio.
“Lascia stare Virginia, niente di che.”
“Ma a me, me parono bbone. Poi te, capirai, cò ste manine belle fai solo cose che ce se po’ morì”
“ Ne vuoi una?”
“Ma ce n’hai poche, dai, magnetele te”
“Io le butto”
“Le butti, aho, ma che sei matta! Famme sentì dai.” Afferra lesta tortina e cucchiaino e la salva dalla miserabile fine che io avevo previsto per lei. Virginia la salvatrice!
“’Mazza bona, oh. Uhm. Uuh. Ma che ‘e butti davero? Allora me ne pijo n’antra.”
Questa è la crema pasticcera che mi è avanzata dalla torta Mediterraneo. Semplice crema pasticcera, ci ho messo chicchi di ribes per darle un po’ di carattere e un po’ di colore e l’ho cotta in forno su un fondo croccante. In mente avevo il Flan Parisien, anche se sapevo che non poteva venire quello perchè non nasce dalla crema pasticcera fatta così.
Ma ce l’avevo questa crema: ho provato a vedere che succedeva.
Bella è bella e così l’ho fotografata e poi ho pensato: pubblicata farà la sua figura ma la ricetta è falsa.
Faccio un giro in rete e ne trovo altre, simili, praticamente uguali: crema cotta. Ah.
Ma io penso al Flan: un altro mondo, un altro pianeta. Così scioglievole e vellutato quello, così rozza ed ottusa questa. Virginia lava gli stampi e la posata nel lavello e comincia a risistemare la cucina.
Il Flan è stato tante volte il sostituto del nostro pranzo da turisti a Parigi, la prima volta che sono andata ero ancora una bambina. Da allora sono passati mille anni e Flan ne ho mangiati a centinaia. Centinaia di ricordi. Ogni volta è diverso: segno certo che la ricetta SEMBRA semplice e banale ed invece nasconde insidie. Sfortunatamente, ad aggravare il tutto, ho in mente l’archetipo: IL FLAN PERFETTO. Lo so al palato ma non ne conosco ancora tutti i segreti. Ogni tanto mi tuffo nei libri, giro in rete, ma la chiave segreta del cuore di questa preparazione non l’ho ancora trovata. E mi sento così vecchia, così in ritardo, così indietro: corro corro e non arrivo mai, non si arriva mai, il mondo è troppo grande, il tempo non mi basta.
“Bimba?!” bimba sono io nell’immaginario distorto di Virginia “Qua posso levà tutto? Metto a posto, eh?”
“Si Virginia, grazie, per oggi non inforno più niente”
“Sti pasticcini? Bboni…” riesce a dire con la bocca piena in uno sbuffo di micro molliche e zucchero a velo
“Esperimento” spiego io e la incoraggio a prenderne ancora.
“Ma che esperimenti che fai te, altro che ‘a bomba ‘tomica!!!” e ride in una nuvola di zucchero a velo.
Esperimenti: ancora una lista infinita di cose da provare e mi viene da piangere. Una lista infinita di argomenti da approfondire e mi viene da piangere. Il libro da scrivere e sono troppo lenta e….mi viene da piangere. La mia faccia bianca. La testa vuota e stanca: mi accascerei di nuovo e mi metterei a piangere ancora, passare (fruttuosamente) il resto della giornata in questa liberatoria quanto inutile occupazione.
Virginia mi guarda, si copre la bocca piena con la mano, in un sussulto di pudore, e gli occhi le ridono di un misto di impertinenza e scusa come fosse un ottenne sorpresa con le mani nel vaso della marmellata.
Rido. E mi sembra che in un secondo sia diventato tutto diverso.
“Lascia, vai…la bilancia mi serve ancora. Metti in ordine le altre stanze, qua ho da fare ancora un po’. ”
Per il Flan Parisien (come da primo esperimento) ricetta così come la recita il La Rousse
Dosi per 6/ 8 persone (quindi direi stampo da 25 cm)
250g. di pasta brisée (vedi qui)
40cl di latte
37cl d’acqua
4 uova
210g di zucchero
60g di amido di mais
Io metterei anche un po’ di vaniglia.
Per la precisione la ricetta dice “poudre à flan” e non amido di mais. Se ci sono lettrici francesi che hanno suggerimenti sono le benvenute.
Come per fare la crema, scaldare il latte e l’acqua e versarli a filo sulle uova battute con lo zucchero e l’amido. Foderare lo stampo con la pasta brisée e riempire con la crema. Infornare a 190° per circa un’ora. Una volta freddo conservare in frigo per almeno tre ore e servire freddo.
Chi prova con me? Poi ci scambiamo risultati e suggerimenti. Sono certa che i trucchi stanno tutti nella cottura: posizione, temperatura e umidità.
Sento la porta chiudersi. Virginia mi ha lasciato una carezza lieve sulla guancia, senza dire niente perché non interrompessi il mio lavoro al pc. La casa profuma di pulito e cose messe a posto.
Dalla cucina si leva un profumo delicato e gentile.
Sorrido.
Ho tutta la vita davanti.
Presumibilmente.