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Il fotografo dei narcotrafficanti

Creato il 26 agosto 2010 da Sabins
leggevo su Rotta a sud ovest, quanto sia difficile e duro fare il fotografo in certe parti del mondo. Prendiamo una delle zone più violente, il Messico, spostiamoci al confine con la California..precisamente a Tijuana.Il fotografo in questione si chiama Alejandro Cossio, ha 36 anni ed è fotoreporter a Tijuana.Qualche giorno fa, in occasione del premio della Fundación Nuevo Periodismo Iberoamericano (FNPI), perché, ha spiegato la giuria, composta dal cileno Claudio Pérez, dallo spagnolo Gervasio Sánchez e dalla messicana Maya Goded, "la violenza è parte della quotidianità del Messico e la stampa tende a mostrare le cose più evidenti, ha rilasciato un'intervista a El Pais; vale la pena leggerla perché parla di un Messico che non si arrende al narcotraffico e dei cittadini che lottano per creare un futuro migliore nel proprio Paese; sempre su El Pais, allo stesso link, ci sono alcune delle immagini che gli hanno permesso di vincere il premio della FNPI.
- Cosa significa questo premio per lei?
Il premio è lusinghiero per me, ma non cambia niente. E' un momento di fama e niente di più. Solo è un segnale che faccio bene il mio lavoro e che devo continuare su questo cammino. A parte, spero mi possa aprire la possibilità di preparare progetti più grandi.
- Che differenza fa, per lei, il fotogiornalismo dal giornalismo scritto nel momento di ritrarre situazioni come quella del Messico?
Il fotografo deve stare sulla linea del fuoco. Se no, arrivi sul posto dopo che sono successe le cose e non hai foto. Chi scrive può fare telefonate, dopo, ma il fotografo o arriva o arriva, non c'è altra soluzione. Devi andare lì anche solo per riprendere l'ultima cosa, quando vanno a raccogliere l'ultimo bossolo. Nella fotografia è un poco più difficile non cadere nell'ovvio, nell'immagine clichè. Bisogna lottare contro questo tipo di immagini.
- Come lotta lei contro questo?
Devi informarti costantemente sul tema che stai coprendo, anche se non scrivi. In questo modo quando arrivi sul posto puoi vedere più dettagli di quello che sta succedendo e avere più foto davanti a te.
- Cosa significa essere fotogiornalista del narcotraffico in Messico? Forse la paura gioca un ruolo importante...
Non è paura, perché con la paura ti paralizzi e non puoi fare niente. Ma sì, devi prendere precauzioni, guardare da un lato all'altro. Nell'attualità qui a Tijuana non abbiamo ricevuto minacce. Nel resto del Paese, invece, le cose si stanno facendo molto difficili e brutte.
- Il suo non è l'unico lavoro giornalistico sul narcotraffico in Messico che ha ricevuto un premio. Quest'anno ha vinto l'Ortega y Gasset Judith Torrea, che lavora Ciudad Juarez. Che differenza c'è tra le due città?
Non sono mai andato lì, perciò non posso dire niente di prima mano. In qualunque caso i miei colleghi mi dicono che l'esercito non ti lascia fare bene il tuo lavoro. A Tijuana sembra quasi che ti aprano la porta e ti dicano "Entra e guarda cosa abbiamo trovato".
- Ha dovuto fotografare un suo collega del Semanal Zeta che è stato ucciso. E' stato il momento più duro della sua carriera?
Non so se il più duro, ma è stato quello che mi ha dato sicuramente un'impressione di impotenza e di tristezza. Quando arrivai e riconobbi l'auto dell'editore di Zeta, mi si offuscò la vista, perché mi ero reso conto che era lui. Però mi ripresi e iniziai a fare foto. Solo dopo, al guardare le immagini, ho capito che chi stava guardando il morto era suo fratello. In quei momenti vai in automatico.
- Qualche volta ha detto che la Polizia non faceva a sufficienza per sconfiggere i criminali dei carteles. Cosa si può fare per combattere la corruzione?
Io non voglio dire che sia tutta la Polizia, ma ci sono molti elementi che lavorano per uno o per l'altro cartel e molte indagini pubblicate su Zeta lo dimostrano. Cosa fare? La cosa più elementare sarebbe votare un altro partito politico che faccia qualcosa. Ma se lo fai e non cambia niente. Mi piacerebbe avere una bacchetta magica, ma non ce l'ho.
- Perché è peggiorata la situazione a Tijuana a partire dal 2008?
E' stata la più classica delle lotte per il potere. Il cartel degli Arellano Félix si divise in due quando arrestarono la cupola. Lasciarono alla guida suo nipote, che chiamano L'Ingegnere. Uno dei suoi luogotenenti, che lavorava con i vecchi capi, disse: "Perché devo lavorare per questo ragazzino?" e di lì è iniziata una guerra per il controllo del cartel. L'anno scorso hanno arrestato la metà di una di queste bande e due piccoli boss chiamati el Teo ed el Muleta. Le acque si sono calmate. Poi, ogni regione ha le sue problematiche particolari, che finiscono tutto nello stesso concetto: violenza, droga, sequestri.
- Cosa si è ottenuto con la politica di Felipe Calderón?
Solo che aumenti la violenza. Penso che Calderón non avesse cattive intenzioni, aveva voglia di lottare duramente, prendere per le corna il toro della criminalità organizzata, cosa che non ha fatto Vicente Fox, ma loro gli hanno rispetto: "No, aspetta bello, noi continuiamo a lavorare e tu non otterrai che ci ritiriamo". Riassumendo, non aveva cattive intenzioni, ma non ha né l'intelligenza né il potere sufficiente per vincerli, per lo meno nei sei anni del suo mandato.
- Ma quali erano le alternative, se non affrontare i carteles faccia a faccia?
Forse ha fallito la strategia. Quando nel 2007 si annunciò la lotta contro la criminalità organizzata, l'esercito entrò a Tijuana e sparì ogni tipo di crimine, sparirono i morti uccisi per strada. Lì l'impatto psicologico fu molto importante, li avevano dominati. Ma in poco tempo i carteles si resero conto che i militari non avevano tutto questo potere e iniziarono a rispondergli da pari a pari.
- Delle immagini che le hanno fatto vincere il premio, quale rappresenta meglio la tua idea di fotogiornalismo?
Quella in cui si vede una mano che cade da un camioncino. Con un solo dettaglio si possono dire molte cose, senza tanti morti, anche se è anche necessario fotografarli, per enfatizzare che sono molti, che si tratta di una guerra.

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