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Il furbino in gondoleta

Creato il 05 maggio 2015 da Albertocapece

Il furbino in gondoletaAnna Lombroso per il Simplicissimus

In visita pastorale lungo lo stivale per accreditare i suoi fidi di tutte le formazioni e di tutti gli schieramenti, il segretario del partito unico pare Montesquieu, sembra Goethe, assomiglia a Montaigne, imita Chateaubriand alle prese con il Grand Tour. Proprio come un viaggiatore del settecento ovunque vada, salvo a Bologna dove la beata apparizione è stata funestata dal brigantaggio locale, è in estasi, va in visibilio, si delizia per la bellezza di un Paese che pretende di governare senza conoscerlo, nemmeno, si direbbe, tramite gita scolastica o viaggio di nozze. Qualche giorno fa è toccato a Venezia: non siamo stati informati dalla schiera folta dei suoi fedeli se fosse la sua prima volta, se nell’album di famiglia che presto ci verrà  recapitato per posta, come nella miglior tradizione governativa, o pubblicato da Chi, compaia la sua foto di bambino che dà il grano ai picconi in Piazza San Marco, o in coppia, con la luna  e Agnese la crumira, in gondoleta.

Certo è che la città lo ha colpito: Venezia toglie il fiato, fa venire le vertigini”, ha esclamato in preda alla sindrome di Stendahl. Che, adesso lo sappiamo per certo, aveva mietuto tante vittime  tra amministratori, politici, controllori, talmente abbacinati dalla bellezza e particolarità della città lagunare da abbandonarsi a   una dolce follia irresponsabile, da diventare succubi di corruttori e predatori, da perdere i sensi insomma, in particolare quello comune, preferendogli quello personale e privato.

E lui se ne intende di soggetti deboli, esposti a irreparabili entusiasmi e abbagliati dal suo inimitabile carisma. Infatti il pubblico della sua ispezione alle truppe era  inebriato dal suo magnetismo come dalla sua tagliente e raffinata ironia: Venezia è la seconda città più bella del mondo, dopo Firenze.

Ma meno fortunata, lasciava intendere, almeno per quanto riguarda i suoi sindaci. Non ha peli sulla lingua il podestà d’Italia: qui il Pd ha fallito. Ma adesso è arrivato lui, pronto a far pulizia  con la stessa candeggina e lo stesso Vetril della maggioranza silenziosa di Milano,  dove passa la processione, cioè, davanti,  perché dietro le quinte di un posto che “non può essere solamente una vetrina, un palcoscenico per attori e attrici” dobbiamo aspettarci che la recita che andrà in scena sarà sempre la stessa, quella di irresistibili fortune costruite sul fango, quella di malaffare legittimato da utili emergenze eternamente prorogate e perennemente favorite.

Il vento cambia, insomma, grazie alla felice coincidenza di due scadenze elettorali decisive per il rinnovamento.  “Vi invidio, ha avuto l’ardire di dire, perché il Veneto è l’unica regione che cambia la regione e il capoluogo”.  A sentire le voci dei veneziani, molti ci terrebbero a fargli sapere che la loro tentazione è quella di cambiare davvero regione e città, trasferendosi in luoghi dove resistano ancora democrazia e partecipazione, dove talenti e personalità vengono messi alla prova della competenza, della capacità e della trasparenza. Dove una dirigenza politica e amministrativa possieda la forza di dire no, no alla irrinunciabilità del mercato, sotto forma di grandi navi che vomitano turisti per caso, forzati delle crociere taglieggiati a bordo e restii alle spese a terra, tanto da preferire un selfie dall’alto del ponte del settimo piano al mescolarsi ai pochi indigeni, da guardare dall’alto come insetti impazziti. No a un rischio in sostituzione di un altro rischio, con un canale sovvertitore dell’equilibrio delicatissimo della laguna, del quale si tacciono gli effetti nefasti in modo da accreditarlo come innocuo accorgimento tecnico, come i costi cui contribuirebbero i soliti noti, le solite cordate private, il solito boss sotto forma di Consorzio, la cui vita felice e profittevole è garantita da partite di giro giocate coi nostri soldi,  imposto grazie a acrobatici equilibrismi legali quanto illegittimi, comunque incongruo in un comune strangolato dal patto di stabilità e affetto da una voragine di bilancio più profonda di qualsiasi scavo.

Dovrebbe stare attento il candidato ufficializzato dalla benedizione papale. Perché l’indulgenza potrebbe non essere plenaria ed essere sospesa  per punire  una realtà locale colpevole di aver messo nei guai la ditta nazionale. Non basterebbe Casson, non basterebbero le pragmatiche alleanze strette per accattivarsi nomenclatura e un sistema “produttivo” che si nutre di quella fuffa “radicata nel territorio” e che si gonfia di quell’innovazione  aerea che fa montare il soufflé della modernità immateriale.

Potrebbe non bastare la redenzione portata in laguna da un’accoppiata che si propone come fresca di giornata, nuova e apocalittica, malgrado lunghe carriere, alte protezioni, influenti padrini, annoiati e difficili come Hoffmansthal, ma convertibili da un qualche Don Verzè, potrebbero non essere sufficienti a persuadere il boss delle torte confezionate a Bruxelles a prodigarsi, a negoziare, a difendere un miracolo urbano retrocesso a santino da riporre nel messale dei ricordi di un passato di gloria.  È uso del teppista di Palazzo Chigi l’intimidazione, è proprio della sua comunicazione l’avvertimento trasversale, è sistema di governo il ricatto, trasmessi nelle sedi più inappropriate ma nonostante ciò efficaci, in vista della definitiva obsolescenza dei luoghi della rappresentanza e della decisione collettiva. Venezia è già un laboratorio sperimentale dell’oltraggio, un test per verificare fino a dove si può spingere l’esigenza di corrispondere all’ideologia del nuovo imperialismo, che obbliga all’alienazione dei beni comuni, al primato dello “sviluppismo” e della privatizzazione come diventato legge con lo Sblocca Italia. E la bonomia del premier, la messa sotto apparente tutela del candidato, quella che lui stesso ha definito la sfida di Casson, altro non esprimono se non la pretesa di scambiare autonomia e potere locale, di abiurare alle prerogative pubbliche, di favorire l’espropriazione di beni collettivi e quindi di cittadinanza, strangolata dai debiti e dall’autoritarismo di chi chiede fiducia in bianco con il revolver,   come fa il  picciotto messo a dettar legge dal racket, a chiedere il pizzo dell’assoggettamento,  in cambio della sua protezione e dei suoi buoni uffici presso la cupola, presso i padrini e i padroni che – è dimostrato – odiano storia, memoria, cultura, bellezza, preferendo loro baracconi, luna park, teatri di cartapesta, grandi opere dietro ai quali nascondere corruzione e ignoranza, avidità di potere e  di profitti. E non abbiamo più una Giustina Renier Michiel, né a Venezia né a Roma, che alla vigilia della caduta della Serenissima chiami alla mobilitazione:  che se non si può salvare la Repubblica, si salvi almeno la città. Non abbiamo saputo difendere la democrazia, sapremo difendere Venezia?

 


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