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In origine furono gli spaghetti western di Sergio Leone: Il buono, il brutto, il cattivo, nella magistrale interpretazione di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Poi fu il turno della parodia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il bello, il brutto, il cretino) e del riadattamento poliziottesco (Il cinico, l’infame, il violento) con gli attori cult del genere, Tomas Milian e Maurizio Merli. Mancava l’ambientazione politica. Quale scenario più adatto del centrosinistra ringalluzzito dagli scivoloni del governo e perciò concentrato nella singolare attività di immolare le vittorie sull’altare delle lotte fratricide? Detto, fatto. E così è ricominciato ufficialmente il campionato nazionale dell’autolesionismo, dopo la pausa imposta dalle elezioni amministrative e dai referendum. C’è da stare uniti per portare a casa il risultato? Neanche a dirlo. Via con le divisioni e con il piano T (o Tafazzi), quello che prevede, morettianamente, di continuare a farsi del male. Non sia mai che gli elettori prendano eccessiva confidenza con i sorrisi.Nel centrosinistra il dopo-Berlusconi è cominciato da un pezzo. Lo si capisce dalle scaramucce iniziate già quando, due settimane fa, le bottiglie dello spumante tirate fuori dal frigo erano ancora mezze piene. Si aspetta soltanto di sapere chi scriverà la parola fine e se una dignitosa exit strategy darà al premier la soddisfazione di lasciare un’eredità alla destra post-berlusconiana. Per cui ognuno si ingegna nell’opera di perimetrazione di una propria area. Di Pietro non ha altra scelta che quella semplificata rozzamente dalla fotografia che lo ritrae in conversazione nientemeno che con il presidente del consiglio, quasi fosse un Responsabile qualsiasi. Per farsi largo tra Bersani e Vendola, occorre qualcosa in più dell’antiberlusconismo viscerale di questi anni, soprattutto perché l’antiberlusconismo, dopo Berlusconi, sarà un’arma spuntata. Serve un profilo nuovo, moderato e dialogante con l’elettorato prevedibilmente in uscita dal centrodestra. Un ritorno alle origini? Forse. D’altronde, Di Pietro con la storia della sinistra c’entra poco. Ai tempi di Mani pulite, l’area giustizialista del Movimento sociale italiano faceva apertamente il tifo per il grande accusatore e non è un segreto l’offerta fatta dallo stesso Berlusconi per averlo ministro dell’Interno nel suo primo governo. Quando ancora il premier cavalcava le istanze giacobine e il tg4 di Emilio Fede teneva Paolo Brosio di picchetto davanti al Tribunale di Milano. Non è da escludere che il nuovo schema provochi qualche mal di pancia, peraltro già manifestato da alcuni commenti inferociti sulla rete e dalla dichiarazione di De Magistris: una svolta priva di senso perché “non è lì che vogliono andare i nostri sostenitori” e perché “dobbiamo essere coerenti” (“Non possiamo di punto in bianco trasformarci da ala sinistra ad ala destra del centrosinistra”).Ma il dado ormai è tratto. Se n’è accorto subito Vendola, finito al pari di Bersani nel mirino di Di Pietro: il leader di Sel perché troppo estremista, quello del Pd perché troppo attendista. C’è della verità nelle parole del governatore pugliese: “Di Pietro vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra”. Legittimo, ovviamente. Anche se fa drizzare le antenne di Vendola, uno abituato a tenere in gran sospetto gli alleati. A ragione, se si pensa che i maggiori ostacoli gli sono stati sempre frapposti dai compagni di viaggio. Insomma, una furbata alla quale non ha abboccato neanche Bersani che, dopo avere messo il cappello sul successo dei referendum – non ascrivibile in toto al Pd, in virtù delle antiche ambiguità su acqua e nucleare e del sostegno espresso apertamente quasi al triplice fischio –, prosegue nel suo corteggiamento a Casini, incurante della propensione della base per un’alleanza Pd-Idv-Sel.Il problema principale del centrosinistra rimane quello di riuscire a darsi delle priorità, che dovrebbero avere a che fare più con la sconfitta del premier e meno con la cura di orticelli e con la gestione di personalissime porzioncine di potere. Ai generali del centrosinistra – è evidente dall’impegno nel rianimare l’avversario agonizzante – non piace vincere facile. Altrimenti non avrebbero affossato per ben due volte Prodi, l’unico in grado di battere Berlusconi. Un peccato che al Professore, in fondo, non è mai stato perdonato.
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