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Il futuro che non abbiamo vissuto

Creato il 11 gennaio 2014 da Lundici @lundici_it
A-OlivettiAdriano Olivetti

Adriano Olivetti

La storia di Adriano Olivetti e delle sue idee.

Questa è la storia di un uomo democratico ed innovatore. La storia di una mente lungimirante e di un cuore saggio. Questa è la storia di Adriano Olivetti e delle sue idee.

Figura snobbata e annebbiata, volontariamente e involontariamente.

Tra i suoi noti propositi quello di creare nel dopoguerra italiano un’esperienza di fabbrica nuova e unica al mondo, in un periodo in cui capitalismo e comunismo si fronteggiavano.

Oggi, dopo vari decenni, capito che le ideologie le hanno ingoiate gli individualismi e il capitalismo è ad un punto di svolta (tranne che per qualche miope), resta valida e cocente la necessità di nuove forme d’imprenditoria, nuovi capitani d’azienda, coscienti delle proprie responsabilità e in grado di farne fronte.

Adriano Olivetti nasce a Ivrea nel 1901, secondogenito diCamillo Olivettie Luisa Olivetti Revel. Negli anni della formazione è molto attento al dibattito sociale e politico; frequenta ambienti liberali e riformisti, collabora alle rivisteL’azione riformista eTempi nuovi. Dopo la laurea in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924 inizia l’apprendistato, come operaio, nella fabbrica di macchine per scrivere fondata dal padre Camillo nel 1908 a Ivrea. L’anno seguente compie un viaggio di studi negli Stati Uniti dove, tra l’altro, visita più di cento grandi fabbriche in pochi mesi, con lo sguardo rivolto a cogliere il segreto dei moderni metodi di produzione e di organizzazione del lavoro. Al ritorno a Ivrea, propone al padre un ambizioso e innovativo programma per modernizzare l’attività della Olivetti, in particolare:organizzazione decentrata del personale, direzione per funzioni, razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero.

Nel 1946 Olivetti fonda le “Edizioni di Comunità”, in un momento di grande cambiamento, per contribuire alla ripresa culturale dell’Italia. Il suo progetto di società unita nella consapevolezza della centralità dei valori dello spirito e di quelli della cultura ancora oggi risulta incompiuto ed oggi come allora si mostra urgente la necessità che le opportunità date dal progresso siano indirizzate alla formazione di un mondo materialmente più realizzato e spiritualmente più elevato.

In questa epoca certi argomenti risultano essere utopia. A questa sensazione, che a volte limita le menti, rispondo con una delle più significative citazioni di Olivetti “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.”

fabbrica Pozzuoli

La fabbrica di Pozzuoli

Accanto all’impegno per creare occupazione (“La disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”), altri propositi furono progettati e portati a termine, come l’attenzione verso l’architettura: la fabbrica di Pozzuoli (così come quella di Ivrea; nel 1955, vince il prestigioso Compasso d’Oro per meriti conseguiti nel campo dell’estetica industriale, e per il miglioramento delle condizioni di vita dei dipendenti) venne progettata come un edificio di alto pregio residenziale, con i reparti pieni di luce, giardini e fontane e il tutto senza dimenticare i servizi sociali, colonie, mense, biblioteche. Ovviamente a tutto questo si affiancava una particolare attenzione verso gli investimenti in ricerca e sviluppo e verso l’organizzazione della rete commerciale composta da giovani e formati venditori.

Durante la dirigenza di Adriano Olivetti la gamma dei prodotti Olivetti viene continuamente ampliata e la capacità produttiva della fabbrica si espande per far fronte a sempre nuove esigenze del mercato nazionale e internazionale.  Il suo successo imprenditoriale ottiene il riconoscimento della National Management Association di New York che nel 1957 gli assegna un premio per “l’azione di avanguardia nel campo della direzione aziendale internazionale”.

Aveva compreso che il segreto per il futuro doveva fondarsi sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e sul suo rendimento economico, sulla modernità dei macchinari e dei metodi ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda.

Rivolgeva le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione culturale e sociale del luogo. Dal suo discorso, in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli il 23 aprile 1955, “La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. (…) Ora che la fabbrica è compiuta a noi dirigenti spetta quasi tutta la responsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe infine della vita stessa del luogo …”.

Se avesse pronunciato queste parole oggi, probabilmente molti avrebbero pensato che dietro le parole c’è il nulla, che sono i fatti quelli che contano.

Adriano Olivetti era un uomo “da fatti”.

Gli utili ottenuti grazie alla sua innovativa idea di fare impresa non si trasformavano, come accade oggi nella maggior parte delle aziende, in larghi dividendi per gli azionisti, né in spericolate operazioni finanziarie, né compensi per massimi dirigenti pari a tre o quattrocento volte il salario di un operaio. Diventavano alti salari, magnifiche architetture, una buona qualità del lavoro, una crescente occupazione, nonché servizi sociali

Se ci fosse oggi, quest’uomo nuovo, se potesse ancora pronunciare certe parole, se potesse ancora vivere la fabbrica così come la intendeva lui, sarebbe additato come populista. Parola tornata in voga negli ultimi anni, parola con cui si vuole sotterrare qualsiasi possibilità di migliorare la vita lavorativa e produttiva ma anche sociale e culturale di questo paese.

La sua visione necessitava anche di una politica nuova, articolata tra due poli: una critica serrata ai partiti e la formulazione di obiettivi per realizzare una «democrazia integrata». Osservava come i partiti non avessero rispettato la verità, avuto tolleranza e tradito gli stessi ideali per i quali erano nati. Ne “Il cammino della Comunità” pubblicato per la prima volta nel 1959 illustrava come la nascita di una società nuova dovesse passare attraverso la formazione di nuovi organismi all’interno delle fabbriche, delle comunità e delle regioni. Organismi che fossero espressione di un cristianesimo sociale. Il suo progetto “Comunità” era un movimento che tendeva ad unire, a far collaborare, mirava a costruire, “…imperniata sulla libertà dell’uomo, sull’autonomia della persona, sulla dignità della vita umana, presuppone un mondo liberato dall’asservimento, dalla forza, dallo strapotere del denaro.” Nessuna divisione ideologica al contrario credeva nella necessità di formare delle nuove autorità decentrate, responsabili e seriamente democratiche, “per evitare una rapida involuzione, soggiacendo inespressa al dominio onnipotente dello Stato…”.

Era consapevole delle difficoltà che una nuova organizzazione del potere politico e sociale avrebbe incontrato nell’affermarsi, si trattava di una battaglia contro i partiti tradizionali, che dominavano i sindacati e le cooperative, dove i deputati erano designati da liste manipolate dalle direzioni dei partiti: “Le Comunità sono invece un ordine concreto, ben radicato nella vita, nella cultura, nel lavoro.”


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