Come ogni crisi economica, anche l’ultima occorsa nell’Unione Europea ha avviato un profondo dibattito sul futuro di questo spazio geoeconomico e delle possibili evoluzioni future all’interno del Vecchio Continente. Le economie dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) hanno messo in evidenza tutti i pericolosissimi rischi connessi alla riduzione della sfera di pertinenza della politica in favore dell’incremento del volume di pertinenza dell’economia. Durante gli anni Novanta la più nota formula tra le classi dirigenti europee era “meno Stato, più mercato”. La conclusione della Guerra Fredda e la consequenziale revisione strategica nel quadro della politica del governo statunitense provocarono una radicale trasformazione in Europa da tutti i punti di vista, come una reazione a catena: dalla geostrategia all’economia, passando per la tradizionale concezione europea della politica. Ad esempio pesanti scandali politici emersero in Italia proprio nel 1992: alcuni dei principali uomini d’apparato degli anni 70 e 80 furono processati ed estromessi dal Parlamento, rendendo così necessaria agli occhi dell’opinione pubblica la nascita di un nuovo sistema politico – la cosiddetta Seconda Repubblica – fondata sulla presenza di due sole grandi coalizioni partitiche, un sistema parlamentare maggioritario via, via sempre più prossimo al bipartitismo statunitense. Le recenti rivelazioni di Bobo Craxi, figlio dell’ex primo ministro socialista italiano, hanno confermato l’ipotesi (fino ad ora sempre gettata nel campo del “complottismo” dai principali media), secondo cui l’inchiesta di “Tangentopoli” ufficialmente condotta dai giudici milanesi Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Armando Spataro, sarebbe in realtà stata pilotata o quanto meno coordinata dalla CIA attraverso la figura di Reginald Bartholomew, che all’epoca era Ambasciatore degli Stati Uniti a Roma(1).
In Germania la riunificazione conseguente alla caduta del Muro di Berlino provocò una serie di drammatiche trasformazioni economiche e sociali all’interno della Germania orientale (la vecchia DDR). Gli altri Paesi socialisti europei, alleati dell’Unione Sovietica, furono completamente devastati dalla shock terapy stabilita dagli economisti occidentali per convertire quei sistemi statalisti in “liberi mercati”, senza alcuna vera protezione sociale o senza alcuna preparazione a riforme così improvvise e radicali. Nei Balcani la situazione diventò esplosiva subito dopo il crollo della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia: i vecchi rancori tra le differenti comunità religiose riemersero dal passato e diedero il via ad uno scenario devastante di violenza. I due interventi occidentali in Bosnia e in Serbia peggiorarono ulteriormente la situazione nei Balcani ed aumentarono l’odio interetnico, umiliando il popolo serbo con un terribile attacco militare e con la creazione di un nuovo Stato illegale nella regione del Kosovo-Metohjia. La caduta del Patto di Varsavia nel marzo del 1991 rese possibile in definitiva una nuova grande fase di espansione della Nato verso Est: intorno alla metà degli anni 90 gli Stati Uniti e i loro alleati avviarono le prime trattative per le nuove integrazioni nell’alveo del comando strategico e nel 1999 Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia divennero ufficialmente nuovi Paesi membri dell’Alleanza Atlantica. Nella decade compresa tra il 1999 e il 2009 la Nato ha poi integrato nella sua alleanza l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Slovacchia, la Slovenia, la Romania, la Bulgaria, la Croazia e l’Albania, avviando percorsi di dialogo o partenariati con altre ex repubbliche jugoslave ostili verso Belgrado (Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro) e con altre ex repubbliche sovietiche ostili verso Mosca (il cosiddetto GUAM, ma non solo), tra cui la Georgia ovverosia quella più pesantemente esposta e politicamente orientata verso Washington. Proprio del percorso di integrazione nordatlantica della Georgia si è parlato in modo particolare durante i lavori dell’ultimo vertice della Nato a Chicago lo scorso mese di maggio. Assieme alla cosiddetta Smart Defense – in base a cui il Pentagono dovrebbe “fare di più con meno soldi” (in realtà scaricando il peso di alcune ingenti responsabilità militari sulle spalle degli alleati europei) – la questione aperta relativa alle nuove integrazioni strategiche ha tenuto banco, assegnando una particolare priorità proprio alla repubblica caucasica, lodata per il cammino intrapreso nel quadro della Commissione Nato – Georgia e per l’impegno garantito in Afghanistan, dove il contingente georgiano è il secondo per numero di unità operative tra gli eserciti alleati esterni alla coalizione atlantica(2). Già nel 2008, del resto, al vertice di Bucarest uno degli impegni prioritari ribaditi dall’allora segretario alla Difesa degli Stati Uniti Robert Gates fu proprio quello di integrare velocemente Tbilisi nella Nato, in attesa delle elezioni parlamentari e presidenziali che tra questo autunno e i primi mesi del 2013 avranno luogo in Georgia. Lo scontro tra Mosca e Washington rischia di farsi seriamente pericoloso e quelle che da parte statunitense vengono considerate ingerenze o aggressioni dell’integrità territoriale georgiana nelle due regioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, sono in realtà percepite dal Cremlino e dalla popolazione russa come legittimi meccanismi difensivi in un territorio che è storicamente e culturalmente legato alla Russia e di certo non a Washington né a Londra. Inoltre l’attuale dirigenza politica georgiana è il prodotto politico e amministrativo della cosiddetta Rivoluzione delle Rose del 2003, uno degli episodi-chiave degli ultimi dieci anni nell’alveo delle rivoluzioni colorate che sconvolsero una parte dello spazio post-sovietico provocando cambi di regime pilotati, favorevoli a Washington e alla Nato.
Tuttavia nel mezzo di questa “piccola” Guerra Fredda regionale tra le due potenze russa e statunitense, quello che l’Europa dovrebbe domandarsi è: cosa comporterebbe un’integrazione della Georgia nello spazio geostrategico della Nato? Ad essa si accompagnerebbe un’integrazione economica di quel Paese nell’Unione Europea che, come per Polonia e Romania, andrebbe a destabilizzare le già precarie condizioni finanziarie e sociali delle nazioni europee? E quali sono i pericoli di una simile integrazione in termini di sicurezza collettiva, viste e considerate le concrete ipotesi di coinvolgimento in svariati casi di cronaca nera e di terrorismo di alcuni uomini di potere georgiani?
LE DIFFERENZE TRA MULTIPOLARISMO E MULTIMPERIALISMO
Proprio la disputa georgiana ci consente di fissare un concetto fondamentale. Come ricordava il filosofo italiano Giambattista Vico, la storia è fatta di corsi e ricorsi ma essa segue un’evoluzione a spirale, cioè né strettamente ciclica né strettamente lineare. Certe dinamiche o certe logiche si ripetono costantemente nel corso degli eventi e in epoche diverse, ma non lo fanno mai nello stesso modo o secondo le stesse modalità. Quando parliamo di multipolarismo, dunque, in generale intendiamo un fenomeno storico oggettivo di progressiva redistribuzione del potere politico ed economico mondiale da un centro egemonico in palese difficoltà (o addirittura in declino) verso altri poli regionali subalterni. Tuttavia nel caso di un’analisi comparata tra le diverse fattispecie di tale fenomeno è opportuno tenere presente che l’ultima fase storica che in ordine di tempo ha registrato una situazione geopolitica di effettiva multipolarità fra diversi attori internazionali ha preso forma tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale, sullo sfondo della Seconda Rivoluzione Industriale. All’epoca il lento ma inesorabile declino dell’Impero Britannico, egemone per almeno un secolo nei tre scenari oceanici, aveva provocato pesanti dissesti nel quadro degli assetti internazionali lasciando ampi margini di inserimento per potenze terrestri fino ad allora pesantemente contenute da Londra come l’Impero Tedesco, l’Impero Austro-Ungarico e l’Impero Zarista o per potenze navali emergenti come gli Stati Uniti e l’Impero Nipponico.
Le preoccupazioni espresse nel 1904 dal geografo britannico Halford J. Mackinder per la rapida espansione ferroviaria della monarchia russa(3) o i tentativi franco-britannici di boicottaggio/sabotaggio del progetto ferroviario Berlino-Baghdad, partito nel 1903, dimostravano con evidenza un rinnovato clima di competizione effettivamente interimperialistica nel molteplice tentativo di penetrazione all’interno degli scenari del mondo coloniale. In quella fase era il crescente processo di modernizzazione navale a costituire il vero e proprio fattore geopolitico concorrenziale, e se la sconfitta dell’Impero Russo nella guerra contro il Giappone del 1904-05 convinse definitivamente Parigi e Londra che Pietrogrado non poteva ancora rappresentare un valido e pericoloso competitore in questa direzione, la crescente potenza economica e marittima tedesca venne percepita come la principale minaccia mondiale per gli interessi anglo-francesi in Europa e in Medio Oriente. In questa fase lo sviluppo economico, prevalentemente a carattere industriale, delle principali potenze del pianeta procedeva di pari passo con quello militare. Come confermato dai dati relativi all’incremento strategico navale registrati nel 1914, cioè all’inizio del conflitto, il primato militare navale britannico (tasso di crescita pari a 2,54 volte rispetto all’anno 1900), messo in discussione dall’arretramento economico, era evidentemente legato all’eredità egemonica del secolo precedente, mentre la Germania incalzava rapidamente sia sul piano economico sia su quello militare (tasso di crescita pari a 4,57 volte rispetto all’anno 1900). La Francia (tasso di crescita pari a 1,8 volte rispetto all’anno 1900) e la Russia (tasso di crescita pari a 1,77 volte rispetto all’anno 1900) confermavano in entrambi i settori rispettivamente il terzo ed il quarto posto in graduatoria. Tra le “seconde linee”, era inoltre l’Impero Austro-Ungarico ad accrescere la propria flotta sul Mediterraneo aumentando il proprio volume navale di 4,7 volte rispetto al 1900(4).
Malgrado la disastrosa sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale, la frammentazione degli Imperi centrali e la Rivoluzione Bolscevica in Russia, l’esorbitante crescita economica ottenuta dagli Stati Uniti con l’introduzione del taylorismo nelle fabbriche del Paese e la pesante egemonizzazione della regione Asia-Pacifico da parte di Tokyo non consentirono a Gran Bretagna e Francia di riconquistare l’egemonia parzialmente perduta durante la fase multipolare, lasciando in sospeso dispute, questioni e controversie enormi che soltanto la Seconda Guerra Mondiale, col suo drammatico e dilaniante disastro collettivo, avrebbe definitivamente risolto. Senza troppo dilungarci sulle dinamiche storiche dei due conflitti mondiali, è evidente che la fase multipolare apertasi grossomodo intorno al 1880 e conclusasi definitivamente nel 1945 abbia ricoperto un lasso di tempo relativamente ampio in un incrocio di alleanze e calcoli politici capaci di condizionare pesantemente anche la dottrina strategica di uno Stato socialista come l’Unione Sovietica che, tra gli anni 20 e gli anni 30, si trovò a dover gestire l’eredità geopolitica dello zarismo trasformando, laddove possibile, la vecchia prassi del contenimento delle minacce del Grande Gioco nella nuova dottrina marxista-leninista del contenimento delle potenze capitalistiche occidentali e dell’imperialismo giapponese. Tale fu il tentativo di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale l’intervento sovietico in Polonia del 1920-21, motivato dal tentativo di riannettere all’URSS i territori indebitamente conquistati dalla repubblica polacca tra Ucraina e Bielorussia. Negli anni successivi, con questa operazione teorico-strategica Stalin garantì non solo una sostanziale continuità col passato ma addirittura un potenziamento della macchina strategica sovietica attraverso la modernizzazione industriale ed infrastrutturale dell’immenso Stato sottoposto all’autorità del Soviet Supremo, come dimostrato da progetti quali la grande canalizzazione del Volga che avrebbe collegato Mosca ai cinque mari, o la linea ferroviaria TurkSib che avrebbe collegato il Turkestan sovietico alla Siberia attraverso un breve ma significativo passaggio all’interno dello Xinjiang cinese, dove l’influenza economica e politica moscovita aveva raggiunto picchi addirittura superiori rispetto all’era zarista(5). La conclusione della Seconda Guerra Mondiale e la concentrazione del potere strategico globale su due sostanziali fronti ideologicamente e militarmente contrapposti segnarono l’inizio della Guerra Fredda, che accelerò lo sviluppo economico e tecnologico degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica in un confronto sempre più serrato e ostinato. Potevano dirsi tali politiche anti-egemoniche? Certamente no, o almeno non del tutto. Anche nella nuova fase bolscevica, la Russia centrale faceva valere una sua condizione di evidente superiorità economica e militare di fronte alla quale le autorità locali delle aree periferiche o gli Stati confinanti più piccoli o di minore potenziale strategico avrebbero potuto ben poco. Del resto la ricomposizione di grandissima parte del territorio zarista sotto il nuovo ordinamento sovietico non avvenne certo in via del tutto pacifica, soprattutto nel Caucaso e in Asia Centrale(6), dove l’Armata Rossa fu costretta più volte a sedare o reprimere nel sangue ingenti rivolte interne organizzate tra gli anni 20 e gli anni 30 da gruppi secessionisti, islamisti o da isolati anarchici provenienti dalla Russia centrale. Si trattava per lo più di elementi animati dal panturchismo o semplicemente dall’antibolscevismo che in alcuni casi furono persino utilizzati nel ruolo di collaborazionisti dalla Gran Bretagna e dalla Germania hitleriana durante l’Operazione Barbarossa, come ad esempio i Tatari di Crimea o i Basmaci del Tagikistan. Potevano dunque dirsi tali politiche, antimperialiste? È possibile affermare di sì, nella misura in cui la stella polare della politica estera sovietica fu sostanzialmente sempre ispirata all’internazionalismo socialista e alla difesa del territorio nazionale riordinato nel 1936 e sistemato in modo definitivo nel 1945 con la riannessione delle regioni e delle isole precedentemente usurpate dalla Polonia e dal Giappone. La storia ha più volte dimostrato che la priorità assegnata alla salvaguardia della stabilità e dell’integrità del complesso e variegato territorio russo/sovietico ha una sua ragione fondamentale di carattere non solo geopolitico ma anche sociale ed economico. Quella fase multipolare in definitiva condusse ad una rottura della vecchia egemonia coloniale franco-britannica e lanciò un momento storico favorevole all’ascesa del primo Stato di ispirazione marxista della storia, una potenza socialista pronta a catalizzare l’attenzione e ad esercitare un potere di attrazione su altri Paesi minori, coloniali o economicamente meno avanzati, in cui nuovi regimi socialisti poterono sorgere nei trent’anni successivi, dalla Mongolia al Vietnam, dalla Corea alla Cina. Il multipolarismo di allora aprì dunque la strada ad un multimperialismo, cioè all’emersione di nuovi o rinnovati imperialismi concorrenziali rispetto a quelli britannico e francese, ma spalancò le porte anche a rotture dalle conseguenze impreviste come quella che portò alla nascita e allo sviluppo strategico dell’URSS.
Al pari di altri soggetti internazionali sorti dalla dissoluzione sovietica, anche la Georgia come repubblica o come Stato autenticamente unitario e indipendente entro i territori oggi noti, non è mai esistita. Dopo la dissoluzione dell’Impero Mongolo fu continuamente costituita da un insieme frammentario di soggetti territoriali, sottoposti per larga parte dei secoli XVI, XVII e XVIII alle scorribande conflittuali dell’Impero Ottomano e dell’Impero Persiano. Fu soprattutto questa crescente minaccia panislamica a convincere Eraclio II, regnante delle province orientali georgiane, a stipulare un accordo strategico con l’Imperatrice di Russia, Caterina la Grande. Passato alla storia col nome di Trattato di Georgievsk, per effetto di questa intesa la Zarina diventava la sola ed unica signora dei sovrani Kartli-Kakheti, garantendo la sovranità interna della Georgia e la sua integrità territoriale, e promettendo di “considerare i loro nemici come Suoi nemici”(7). I passi successivi furono l’abolizione della Chiesa Ortodossa autocefala nel 1811 e il ricongiungimento con il Santo Sinodo Russo, nato ai tempi di Pietro il Grande in sostituzione del Patriarcato di Mosca. Dopo la dissoluzione dell’Impero Zarista, nel 1918 nazionalisti e menscevichi locali dichiararono la Georgia una repubblica indipendente inserendola come Stato federato all’interno della neonata Repubblica Democratica Transcaucasica. Tre anni dopo, fu proprio il georgiano Josif Stalin a guidare le truppe bolsceviche in Georgia per consentire la riannessione della regione caucasica sotto l’autorità moscovita. L’odierna repubblica georgiana indipendente è dunque il risultato della Dottrina Sinatra e della perestrojka, e costituisce uno Stato che, così com’è, viene ad essere geopoliticamente privo di significato, vista la sua sostanziale affinità etnica con altre popolazioni residenti nel territorio federale russo e la sua comunanza confessionale con l’Ortodossia russa. Eppure l’intervento russo del 2008 per difendere le popolazioni abkhaze e ossete dalle avventate azioni militari del governo di Tbilisi fu presentato dalla stampa occidentale come un’invasione o un’aggressione all’integrità territoriale della Georgia, rafforzando in molti ambienti politici occidentali di sinistra o anarchici la tesi dell’esistenza di un imperialismo russo, simile o addirittura più pericoloso rispetto a quello statunitense.
È possibile affermare questo? No. Senza dubbio la Russia oggi, a differenza della Repubblica Popolare Cinese, è un Paese ad economia capitalistica e logicamente aperto ai mercati internazionali. Tuttavia questa sua struttura finanziaria non può certo oscurare la sua netta condizione di subalternità rispetto alle volontà strategiche dell’Alleanza Atlantica e di Washington che ne è alla guida. Basta osservare la spesa militare degli Stati per concludere che l’attuale fase multipolare (in divenire) non registra quel sostanziale parallelismo tra sviluppo economico e sviluppo militare che invece era piuttosto marcato nei primi tre lustri del XX secolo. Malgrado l’avvio di un processo di redistribuzione del potere politico ed economico mondiale sull’onda tendenziale generata dalle economie emergenti o riemergenti del BRICS, la capacità strategica della superpotenza statunitense, sebbene calante, è proporzionalmente molto più elevata di quella britannica all’inizio del XX secolo. Nei cinque anni trascorsi dall’esplosione della bolla speculativa che nel 2007 ha dato il via alla crisi finanziaria colpendo principalmente i mercati occidentali, gli Stati Uniti non hanno perduto nemmeno uno dei principali avamposti militari che detengono nel pianeta e tutto ciò che è stato fin’ora ridotto o ridimensionato in termini di spesa militare è frutto di un calcolo autonomo o di una scelta razionale strategica unilaterale ben soppesata. Questo evidenzia non soltanto che la potenza militare sviluppata dalla macchina strategica di Washington negli ultimi quindici anni ha raggiunto livelli di supremazia assoluta che hanno toccato il loro apice con l’introduzione del concetto strategico di full spectrum dominance(8), ma anche che questo enorme accumulo di potenziale bellico e di margini di manovra navali le consente persino il lusso di gestire la crisi interna e di pensare con relativa calma alle possibili vie d’uscita da questa empasse attuale. Dati alla mano, le statistiche elaborate dal SIPRI relative al 2010 evidenziano un volume di spesa militare generale esorbitante per gli Stati Uniti, pari a 698 miliardi di dollari, una cifra equivalente al 43% dell’intera spesa militare mondiale(9). La Repubblica Popolare Cinese, seconda potenza economica mondiale, si conferma al secondo posto anche nella classifica del budget destinato alla Difesa, ma con un volume complessivo pari a 119 miliardi di dollari, cioè al 7,3% della spesa militare mondiale. Seguono le altre due potenze nucleari della Nato, Gran Bretagna e Francia, e al quinto posto la Federazione Russa con una spesa pari a 58,7 miliardi di dollari. Dopo i relativi tagli al bilancio nei primi anni Novanta (fine della Guerra Fredda), a partire dall’ultima pesante crisi sullo Stretto di Taiwan nel 1996 il bilancio difensivo degli Stati Uniti ha cominciato ad aumentare (con un lievissimo calo nel solo 1998) passando dai 276,324 miliardi di dollari del 1997 ai 668,604 miliardi del 2009 aumentando dunque del 58,67% in appena dodici anni(10). Riassumendo, nel 2010 (e dunque in piena crisi economia interna) il bilancio militare di Washington equivaleva a 5,86 volte quello cinese e a 11,73 volte quello russo. Inoltre seguendo i partenariati strategici e le alleanze politico-militari stabiliti negli ultimi sessanta anni dalla Casa Bianca – che spesso ha riconvertito al proprio servizio vecchi imperialismi regionali decaduti come quello nipponico e quello turco – è possibile notare che dei dieci Stati con la più alta spesa militare al mondo, ben 7 (Stati Uniti, appunto, Regno Unito, Francia, Giappone, Arabia Saudita, Germania e Italia) mantengono al momento una dottrina strategica di orientamento atlantista e soltanto 3 (Repubblica Popolare Cinese, Federazione Russa e India) appartengono ad organizzazioni totalmente estranee od ostili alla Nato, come la SCO. Questi tre Stati, inoltre, non posseggono alcuna base militare al di fuori dei propri confini nazionali, con la sola eccezione della base navale russa di Tartous (Siria) e delle basi o installazioni strategiche e militari russe presenti nelle repubbliche dell’ex URSS (ad esempio Okno in Tagikistan, Balkash in Kazakistan, Kant in Kirghizistan o Sebastopoli in Ucraina), ovvio e scontato retaggio dell’era storica precedente. Numerosissimi sono invece gli avamposti statunitensi dislocati nel pianeta intero e concentrati soprattutto in Europa e nella regione Asia-Pacifico(11), chiaramente volti al contenimento proprio della Russia e della Cina. A tutto ciò va aggiunta la recente creazione del comando US Africom, che dal 2008 coordina e organizza tutte le truppe statunitensi di stanza nei Paesi del Continente Africano, e deve essere affiancato anche il fatto che tra le dieci maggiori industrie militari al mondo per volume di produzione nel 2009, ben 7 erano statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics, Raytheon, L-3 Communications e United Technologies) mentre le altre 3 erano comunque legate a Paesi della Nato (Bae Systems, Finmeccanica e la EADS) (12).
È perciò praticamente impossibile riuscire ad intravvedere nelle politiche di Vladimir Putin un atteggiamento imperialista e la stessa questione georgiana per Mosca si configura – sia per motivi storici sia per motivi strategici – come una questione di sicurezza interna che, qual’ora fosse risolta a proprio favore, da un lato dovrebbe giustamente ricomporre le frazioni createsi all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, e dall’altro dovrebbe garantire a Mosca un’adeguata ristrutturazione difensiva dello spazio post-sovietico attraverso il navigato ruolo intergovernativo di organismi a carattere cooperativo e multilaterale come la CSTO e l’EurAsEC. Del tutto diversa è la posizione degli Stati Uniti che, da potenza completamente estranea alla regione caucasica, tentano di inserirsi in questo scenario per stabilire un proprio completo controllo in Georgia, dopo aver piazzato propri uomini negli apparati strategici della Polonia (il polacco-britannico Donald Tusk, primo ministro) e della Romania (il generale statunitense in pensione Wesley Clark, consigliere strategico del primo ministro di Bucarest). Proprio la Romania, la Polonia e la Georgia sono i tre grandi punti interrogativi lasciati in sospeso tra gli interessi russi e gli interessi statunitensi. L’integrazione della Polonia e della Romania nella Nato ha comportato anche l’avvio di un iter di integrazione di questi due Paesi nell’Unione Europea, con tutto quel che ne è conseguito in termini di impoverimento sociale locale, sfruttamento della manodopera a basso costo, delocalizzazione industriale verso le aree più arretrate e immigrazione incontrollata nei Paesi più avanzati dell’Europa occidentale (Trattato di Schengen).
Durante la fase di espansione verso Est della Nato, dunque, il meccanismo integrativo dell’Unione Europea ha tentato, con risultati disastrosi, di assorbire e completare sul piano economico la solidificazione di uno spazio strategico di tipo transatlantico, tanto innaturale dal punto di vista geoculturale quanto sconveniente sotto tutti i punti di vista. L’Unione Europea infatti ha recentemente approvato sanzioni contro l’Iran che danneggeranno anzitutto i Paesi stessi dell’Unione Europea sul piano commerciale ed energetico(13), ha assecondato o sostenuto (con l’eccezione della Germania) l’intervento in Libia contro Gheddafi e ha minacciato di fare altrettanto in Siria contro Assad, rischiando così di cancellare i pochi fattori di stabilità presenti nel Mediterraneo sia sul piano dell’approvvigionamento energetico sia sul piano della sicurezza collettiva(14). Tutto questo per assecondare le pressanti richieste degli Stati Uniti e/o di Israele. Cosa accadrebbe nel momento in cui anche la Georgia dovesse fare il suo duplice ingresso nella Nato e nell’Unione Europea? La risposta a questa domanda è una sfida, tuttavia non è difficile prevedere che il processo di integrazione di un Paese con queste caratteristiche costituirebbe una gravissima ed ennesima ingerenza nei confronti della Federazione Russa che avrebbe così un ulteriore motivo per sentirsi minacciata e per chiudere molte delle relazioni commerciali avviate lungo gli ultimi dieci anni dal presidente Vladimir Putin con la Germania, con l’Italia e con la Francia. Inoltre, attorno al presidente georgiano Mikheil Saakashvili, un personaggio instabile e sospettato di fare uso di eroina, si è negli anni creata una vera e propria cricca oligarchica di pochi uomini scelti tra l’imprenditoria privata locale e l’apparato militare, rendendo la Georgia un Paese molto oscuro nel quale si sono consumati regolamenti di conti e addirittura omicidi, che osserveremo meglio in seguito.
LE DUE EUROPE
Se da questa crisi europea si dovesse tracciare un insieme di linee strategiche per il prossimo futuro, senza dubbio il fattore di maggior rilievo è rappresentato dalla crescente potenza economica tedesca. Al di là del giudizio politico sull’operato di Angela Merkel, appare evidente e pacifico che la Germania stia oggi tentando, anche attraverso l’arma del “ricatto” finanziario, di accrescere il suo potere politico all’interno dell’Unione Europea. Del resto non è stata la sola Germania né tanto meno l’attuale classe dirigente tedesca a costruire il sistema monetario unico, e fa specie che molti politici che oggi puntano il dito contro le iniquità e le contraddizioni dei meccanismi di Bruxelles e Strasburgo fossero i più fiduciosi sostenitori del processo di integrazione europea negli anni Novanta. Allo stesso modo non brilla certo per serietà e per obiettività chi sostiene, come il primo ministro italiano Mario Monti o il governatore in carica della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che il percorso di unificazione dei mercati europei sia un cammino irreversibile. La scelta è aperta e presenta diverse ipotesi: ogni Stato sovrano può tornare indietro, ripensare completamente il proprio ruolo nello spazio economico europeo ed uscire dal sistema dell’Euro con tutti i rischi del caso per le economie attualmente più in crisi come quella italiana, quella portoghese, quella greca o quella spagnola; ma ogni Stato può anche andare avanti. Tuttavia, se si vuole andare avanti, si devono mettere in chiaro alcuni punti:
- L’Unione Europea deve evolversi e trasformarsi in una confederazione politica con un proprio consiglio di primi ministri e ministri europei, con un proprio comando strategico difensivo e con un proprio istituto pubblico di regolazione e concertazione dei meccanismi economici e finanziari.
- Le nazioni europee, Germania compresa, devono accettare una parziale cessione di sovranità rispetto a quest’organismo condiviso.
- Gli Stati membri devono accettare il fatto che la Germania sia per ora destinata a rivestire un ruolo di maggior peso politico ed economico nel quadro dell’Unione Europea e comportarsi di conseguenza.
Dal momento che questi tre punti, e soprattutto il primo, sono fortemente osteggiati e presentano enormi ostacoli sul cammino della propria concretizzazione, appare evidente che non assisteremo mai alla nascita di un autentico soggetto autonomo europeo, che alcuni analisti hanno provato a presentare col nome di “Stati Uniti d’Europa”. Anzitutto perché gli Stati Uniti – quelli d’America – sono fortemente e logicamente contrari a qualunque evoluzione dello spazio economico comune in una direzione che possa mettere in discussione il ruolo e l’unicità della Nato. Lo scontro apertosi tra il duo Washington-Londra e Berlino(15) ha riproposto vecchi dissapori e antiche ostilità ma, a meno di colpi di scena, difficilmente riuscirà entro breve a catapultare la Germania fuori dall’Alleanza Atlantica. Resta il fatto che negli ultimi anni, grazie all’intraprendenza del cancellierato di Angela Merkel, la Germania è ormai diventata il primo interlocutore commerciale europeo della Cina e ha rinforzato le relazioni con Mosca già avviate durante il mandato precedente. Simile percorso sembra aver intrapreso l’Ungheria di Vitkòr Orban che, dopo aver vinto le elezioni, ha avviato una politica estera che unisce elementi di mitteleuropeismo a curiosi spunti turanisti nel tentativo di stringere i rapporti con Paesi etnicamente affini come il Kazakistan(16). Cosa avviene dunque in Europa centrale? Quanto concrete potrebbero essere le ipotesi di una rinascita di quei soggetti mitteleuropei che garantirono una certa capacità di contro-bilanciamento rispetto alle potenze marittime per almeno tre secoli? È ovvio che lo scenario internazionale odierno sia completamente diverso e che anche soltanto ritenere plausibile le restaurazioni di una nuova Prussia e di una nuova Austria-Ungheria sarebbe pura follia. Tuttavia è evidente che la Germania, l’Ungheria e di conseguenza anche l’Austria – oramai profondamente legata al mercato tedesco – potrebbero avviare una tendenza nuova in Europa, una tendenza che entro dieci o forse quindici anni potrebbe determinare la rottura della rigida staticità di un continente bloccato nelle sue potenzialità di sviluppo collettivo e continuamente sottoposto alle pressioni internazionali di Washington e Tel Aviv. Ovviamente il percorso verso una simile soluzione è ancora lunghissimo e molti nodi ancora devono essere sciolti a partire dalle palesi contraddizioni della politica di questi tre Stati. La Germania, in particolar modo, non potrà certo dimostrarsi un interlocutore con una credibilità di lungo termine per la Russia e per la Cina fin quando non avrà reciso tutti i lacci storici che la legano all’attuale governo di Ankara e alle sue assurde vocazioni imperiali moderne, confusamente riposte nelle velleità panturche e nelle rivendicazioni neoottomane, fra loro persino contrastanti(17). Questi tentativi di inserimento da un lato danno spago ad un pericoloso sentimento etnonazionalista nelle cinque ex repubbliche sovietiche di matrice turanica (Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Azerbaigian) ed attentano all’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, mentre dall’altro lato cercano di inserirsi nel mondo arabo (Marocco, Tunisia, Libia ed Egitto) e nei Balcani (Albania, Bosnia-Erzegovina e Kosovo) alimentando conflitti e destabilizzazioni. La Prima Guerra Mondiale è terminata, così come la Seconda, e la tenuta dell’odierna economia tedesca ormai dipende anche dalle forniture energetiche della Russia e dal volume di esportazione commerciale della Cina.
Se nel breve termine lo scenario riportato in cartina appare senza dubbio remoto e difficilmente realizzabile, Berlino dovrà comunque rivedere il suo inserimento nei Balcani ed abbandonare definitivamente la sua massiccia partecipazione alla missione Nato nel Kosovo. Lo sfaldamento dello spazio dell’ex Jugoslavia sembra ormai insanabile ed è logico supporre che un’area privilegiata composta da quelle nazioni cattoliche che costituirono l’Impero Austro-Ungarico potrebbe tornare a contenere e disinnescare i violenti sciovinismi ancor’oggi presenti in Croazia e in Slovenia, favorendo l’inizio di un processo che preveda la restituzione pacifica a Belgrado delle regioni serbe della Krajna e della Slavonia (oggi occupate dalla Croazia), del Kosovo-Metohija (oggi amministrato da uno Stato privo di legittimità internazionale), delle province a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, del Montenegro (separato dalla Serbia nel 2006) e della Macedonia (quasi interamente ortodossa). Questa ricomposizione dello spazio serbo consentirebbe la costruzione di un’area più vasta di cooperazione tra i tre Paesi ortodossi dei Balcani meridionali: Serbia, Bulgaria e Grecia andrebbero così a contenere definitivamente le velleità di espansione che la Turchia ancora mostra rispetto alla regione, minacciando l’integrità territoriale della Bulgaria – anch’essa storicamente legata agli Imperi centrali – direttamente dai confini meridionali e, come visto in precedenza, la stabilità dei Balcani. In sostanza pur restando infondati i toni allarmistici in merito all’immigrazione di carattere islamico in Europa, è normale che Paesi cristiani come l’Ungheria, la Bulgaria, l’Austria e la Germania siano attualmente molto preoccupati dalla presenza nei propri territori sovrani di un forte associazionismo a carattere confessionale proveniente dalla Turchia e dal Nord Africa, che solleva legittimi dubbi e purtroppo anche immancabili reazioni a sfondo xenofobo(18). Nell’era della globalizzazione e delle migrazioni di massa l’eredità delle vecchie relazioni amichevoli tra Berlino, Vienna, Budapest ed Istanbul potrebbe dunque perdere sempre più consistenza. La costituzione di questo corridoio centrale europeo consentirebbe ai Paesi coinvolti di incrementare la propria cooperazione economica senza le restrizioni burocratiche comunitarie ed allenterebbe notevolmente la morsa strategica statunitense sull’Europa concedendo così alle dirigenze di Berlino, Vienna e Budapest la possibilità di rivedere radicalmente gli accordi stabiliti dai loro Paesi nell’ambito della Nato. Fantapolitica? Non lo sappiamo. Quel che è certo è che la longa manus di Washington sull’Europa non potrà durare in eterno e che – prima o poi – un punto di rottura dovrà manifestarsi all’interno del Vecchio Continente. Che questo ruolo antagonista rispetto alle strategie dei Paesi atlantici (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) sia tradizionalmente destinato ad essere ricoperto dalla Germania è altrettanto scontato. Meno scontata è invece la capacità tedesca di imparare dagli errori del passato evitando di isolarsi in maniera aggressiva e di aprire uno scontro sui due fronti. La perseveranza a rispettare i patti con Mosca e la persuasione rispetto alla Francia saranno decisive in un insieme di equilibri che garantirebbero a Berlino la possibilità di tornare ad una Ostpolitik capace di integrare lo spirito di collaborazione russo-tedesco costruito nei quaranta anni della Guerra Fredda dalle classi dirigenti della Repubblica Democratica Tedesca sul solco dell’eredità germanico-prussiana nella regione baltica e nel quadro di una politica di riavvicinamento che – adeguatamente controbilanciata dalla presenza militare russa nell’enclave di Kaliningrad – consentirebbe il monitoraggio e il depotenziamento degli sciovinismi russofobi presenti in Estonia, in Lituania e in Lettonia da parte di popolazioni che ormai rifiutano in modo categorico ogni progetto di reintegrazione in un qualunque ipotetico spazio post-sovietico.
Evitare integrazioni forzate o innaturali sarà dunque la prima regola che la futura Unione Eurasiatica dovrà stabilire all’atto della sua nascita ufficiale dalle fondamenta di quello che per il momento è soltanto uno spazio economico comune formato da Russia, Bielorussia e Kazakistan nel quadro dell’EurAsEC. La volontà di Putin è quella di sondare il terreno per il prossimo ingresso dell’Ucraina, del Kirghizistan e del Tagikistan. Se per questi ultimi due Stati centrasiatici l’integrazione rappresenterebbe un’opportunità da non lasciarsi scappare in termini di sviluppo economico e sociale, per l’Ucraina il discorso si fa più complesso. Anche in questo caso i pesanti dissidi interni e le contraddizioni presenti tra la parte orientale (ortodossa e filorussa) e la parte occidentale (cattolica e filopolacca) del Paese potrebbero essere risolte da un’accorta politica di contenimento e distensione delle nazioni dell’Europa centrale. In questo senso il ruolo di mediazione di un’ipotetica nuova confederazione di Austria-Ungheria sarebbe di grande aiuto nella risoluzione del problema relativo alla Galizia ucraina ed estrometterebbe da quest’area le interferenze statunitensi che chiaramente pretendono di isolare tutto il territorio nazionale ucraino dalla Russia per ottenere l’accesso alle ingenti risorse naturali e alle coste del Mar Nero, presenti soltanto nella parte orientale del Paese.
GEORGIA: UN PERICOLOSO ‘GRANDE GIOCO’
In un recente discorso tenuto all’Università di Princeton, il presidente georgiano Mikheil Saakashvili ha ribadito la volontà del suo Paese di completare entro breve il percorso di integrazione nella Nato, ribadendo alla platea di studenti e giornalisti statunitensi la gravità di quella che ha definito una minaccia per l’integrità della Georgia e ricorrendo ad alcune analogie propagandistiche tra gli interventi sovietici in Cecoslovacchia e Afghanistan e l’intervento russo in Ossezia del Sud nel 2008. Il capo di Stato del piccolo Paese caucasico ha dimenticato di ricordare al suo pubblico che da quattro anni il Parlamento di Tbilisi è semideserto in seguito al boicottaggio organizzato dai partiti di opposizione per denunciare i pesanti brogli registrati durante l’ultima tornata elettorale che vide la vittoria del partito di destra Ertiani Natsionaluri Mozraoba, legato allo stesso Saakashvili. L’OSCE parlò di alcune imperfezioni durante le operazioni di scrutinio, tuttavia ritenne che quelle elezioni fossero più regolari delle precedenti e non approfondì la questione: fatto gravissimo, dal momento che in altri recentissimi contesti ben più trasparenti di quello georgiano, come quello bielorusso o quello kazako, l’OSCE ha invece subito denunciato presunti brogli. Questa situazione ha prodotto un’anomalia istituzionale ed una completa sospensione della democrazia e del dibattito parlamentare che ne dovrebbe essere alla base, senza considerare il fatto che l’indotto produttivo della Georgia è fermo al 120° posto nella graduatoria mondiale del PIL, a cui la produzione industriale contribuisce soltanto per l’8,9%, mentre restano preoccupanti i tassi di disoccupazione (16%) e di povertà (9,7%)(19). Né Washington né l’ONU si sono però sentite in dovere di intervenire in alcun modo negli affari interni della Georgia, specialmente a seguito delle numerose manifestazioni di protesta registrate nel Paese e nella capitale Tbilisi. Negli ultimi due anni il clima si è surriscaldato e le pesantissime tensioni tra il partito di governo e le opposizioni rischiano di farsi seriamente pericolose. La linea politica pesantemente russofoba e il clima di terrore instaurato tra i quattro milioni e mezzo di cittadini georgiani per ogni pur minimo sospetto di contatti con Mosca, stanno esasperando la popolazione che ovviamente, in larghissima parte, non comprende e non condivide questo astio nei confronti del popolo russo. L’ultima provocazione simbolica risale al 2010, quando la locale amministrazione di Gori, in concerto col governo centrale, decise di rimuovere – per altro di notte e nel segreto generale – la statua di Josif Stalin eretta circa settanta anni prima davanti alla sede municipale della città natale del capo sovietico, annunciando la costruzione nello stesso punto di una stele in memoria dei caduti nella guerra contro la Russia del 2008(20). Tra le persone più anziane furono in molte a protestare contro la decisione di rimuovere la statua di Stalin, eppure il dispotismo di Saakashvili e della sua cerchia di potere sembra non fermarsi davanti a nulla.
Nel 2005 era stato trovato privo di vita Zurab Zhvania, primo ministro georgiano, da tempo critico nei confronti di Saakashvili. Appena due giorni più tardi, veniva pubblicata la notizia del suicidio di Georgi Khelashvili, un uomo dell’apparato di Zhvania, che aveva considerato qualsiasi piano di invasione georgiana delle regioni dell’Ossezia e dell’Abkhazia come un errore politico. Nel maggio del 2005 il direttore dell’Agenzia Investigativa Nazionale Levan Samharauli veniva ucciso da una persona definita mentalmente instabile che si toglierà la vita poco dopo nel suo appartamento. Questi omicidi restano tutt’ora irrisolti e lasciano molti dubbi in relazione all’identità dei mandanti e al significato politico dei drammatici episodi. Recentemente, il 21 maggio scorso l’ex comandante della 25a brigata dell’esercito georgiano, Roman Dumbadze, condannato nel 2004 da un tribunale georgiano a 17 anni di reclusione, è stato ucciso a Mosca dove aveva trovato asilo nel 2008, a seguito di uno scambio tra prigionieri nei giorni del conflitto russo-georgiano. Il 7 agosto scorso, invece, è stato rinvenuto in Bielorussia il corpo esanime di Bondo Shalikiani, ex primo ministro del Paese caucasico, importante uomo d’affari nella regione georgiana dell’Imerezia e proprietario del canale televisivo “Kutaisi”. Durante gli ultimi giochi olimpici londinesi, inoltre, ha fatto scalpore la richiesta di asilo politico presentata alle istituzioni britanniche dall’atleta georgiano Betko Shukvani, che ha sostenuto di aver ricevuto pesanti minacce dalle autorità del suo Stato. Eppure le ombre sul governo georgiano non finiscono qui. Georgi Gamsakhurdia (figlio del dissidente antisovietico e primo presidente della Georgia indipendente Zviad Gamsakhurdia), attualmente viceministro presso il Dipartimento per la Diaspora Georgiana, è considerato responsabile nel coordinamento di attività terroristiche in collaborazione con l’estremismo ceceno e di attività di destabilizzazione antirusse in concerto con organizzazioni non governative collegate con la National Endowment for Democracy (NED) quali Caucasian House, Free Caucasus e Caucasus Foundation. Lo scorso 28 agosto, per effetto del generale scenario di legittimazione internazionale del terrorismo salafita e wahabita nel quadro delle cosiddette “primavere arabe”, è stata uccisa la guida spirituale del Dagestan, Said Afandi al-Chirkavi, il quale purtroppo non ha goduto della stessa fortuna capitata al suo omologo del Tatarstan, Ildus Faizov, scampato miracolosamente ad un attentato a Kazan’ nel mese precedente. Gli inquirenti sospettano che i responsabili dell’omicidio siano riconducibili proprio all’integralismo salafita(21) e da più parti sono stati sollevati dubbi in merito all’ipotesi che le autorità georgiane possano essere coinvolte nel coordinamento di questi gruppi estremisti.
Allora chi è Mikheil Saakashvili e quali sono le attività reali e le intenzioni del partito di governo a cui appartiene? Quali connivenze e quali responsabilità gravano sulla sua ormai quasi decennale presenza al potere? Non possiamo rispondere con esattezza a queste domande ma anche volendo mettere da parte dubbi e sospetti, ancora da dimostrare, pare tuttavia evidente che l’ingresso nell’Unione Europea di un Paese con tali enormi deficit economici, democratici e costituzionali sarebbe estremamente pericoloso per la stabilità finanziaria, politica e sociale dei nostri Paesi. Il generale malcontento causato da una politica scellerata e antisociale come quella di Saakashvili e del suo partito potrebbe inoltre portare migliaia di georgiani ad avvalersi del Trattato di Schengen per entrare legalmente nei Paesi dell’Europa occidentale, dove andrebbero senz’altro ad incrementare i tristi fenomeni del caporalato, dello sfruttamento e della prostituzione, come già avvenuto per molti cittadini polacchi e romeni. Viceversa permetterebbe a migliaia di imprenditori europei senza scrupoli di delocalizzare la propria produzione verso un nuovo mercato dell’Est da sfruttare a basso costo e senza le tutele sindacali e contrattuali previste per legge nei nostri Paesi.
CONCLUSIONI
È evidente come i bizzarri meccanismi dell’architettura finanziaria dell’Unione Europea, le mire egemoniche degli Stati Uniti nella massa eurasiatica e i biechi interessi di bottega dei settori parassitari dell’imprenditoria occidentale convergano tutti assieme nel progetto di far entrare la Georgia nella Nato e nell’Unione Europea senza considerarne in alcun modo le conseguenze devastanti nel lungo periodo che aggraverebbero la nostra crisi economica sino al collasso e condurrebbero i nostri Paesi ad essere coinvolti in una nuova devastante guerra aperta contro la Russia
Note:
(1) Il Tempo, Bobo Craxi: “L’America voleva cambiare regime in Italia”, 30 agosto 2012
(2) Panorama Difesa, NATO Summit 2012, R. Ferretti, n. 7/2012, pp. 40-45
(3) Halford J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, “The Geographical Journal”, vol. XXIII, n. 4, aprile, 1904, pp. 434-437
(4) (cfr) Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers, Random House, New York, 1987.
(5) Andrew D.W. Forbes, Warlords and Muslims in Chinese Central Asia: A Political History of Republican Sinkiang 1911-1949, Cambridge University Press, 1986, pp. 41-42
(6) (cfr) M. Buttino, La rivoluzione capovolta. L’Asia centrale tra il crollo dell’impero zarista e la formazione dell’Urss, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003.
(7) L. MAGAROTTO, Il mito del Caucaso nella letteratura russa, Padova, 1992, p. 35
(8) Col termine anglofono “full spectrum dominance” si intende il nuovo concetto introdotto alla fine degli anni Novanta nella dottrina strategica degli Stati Uniti che prevede la costruzione delle migliori condizioni per l’ottenimento di una supremazia assoluta e totale, su tutti i fronti del conflitto: tattico-operativo, informatico, comunicativo e logistico.
(9) SIPRI, Spesa Militare Mondiale, Rapporto 2011.
(10) SIPRI Database, USA Military Expenditures 1988-2011, 2012.
(11) Attualmente il Dipartimento per la Difesa degli Stati Uniti suddivide l’intero planisfero in sei comandi regionali: US Northcom, US Eucom, US Centcom, Us Southcom, US Africom, US Pacom. Lo US Eucom e lo US Pacom prevedevano sino al 2010 l’utilizzo di 63.000 unità in Europa e di 60.000 unità fra Corea del Sud e Giappone.
(12) SIPRI, Maggiori industrie militari al mondo, 2011.
(13) LINKIESTA, Dal 1 luglio la Ue farà anche a meno del petrolio iraniano, ne vale la pena?, 19 giugno 2012.
(14) Soprattutto per l’Italia, l’annullamento del Trattato di Amicizia di Bengasi siglato tra il governo Berlusconi e il colonnello Gheddafi ha significato pesantissime perdite nelle forniture petrolifere e nuovi sbarchi di clandestini e criminali comuni che, sfruttando il clima di caos delle “primavere arabe”, sono fuggiti dagli edifici penitenziari di Tunisia, Libia ed Egitto.
(15) La Repubblica, Obama arruola Monti, Hollande e Cameron. “Se Merkel non cede va messa spalle al muro”, 7 giugno 2012.
(16) Rivista Eurasia, L’Ungheria guarda ad Oriente, 30 maggio 2012
(17) La questione relativa alla contraddittorietà delle vocazioni imperiali moderne della Turchia è complessa ma brevemente riassumibile nella fondamentale diacronia storica ed etnografica tra l’antico sviluppo degli autentici popoli turchi (di matrice uralo-altaica) e il successivo processo di islamizzazione dell’Anatolia, del Caucaso e dell’Asia Centrale operato dagli Arabi tra l’XIII e il XIII secolo.
(18) EURONEWS, Erdogan celebra a Berlino 50 anni di immigrazione turca, 2 novembre 2011.
PRESSEUROP, Ieri gli ebrei, oggi i turchi, 6 aprile 2010.
(19) CIA World Factbook, Georgia, Economy, 2012.
(20) ADNKRONOS, Georgia: statua Stalin nel centro di Gori rimossa in segreto nella notte, 25 giugno 2010.
(21) Occorre ricordare che il 9,8% della popolazione georgiana è di fede islamica sunnita e che, dunque, fra questa minoranza potrebbero nascondersi piccole ma pericolosissime frange salafite e wahabite.
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