Cari lettori, sta per aprirsi al Museo Maxxi di Roma una splendida mostra di arte indiana contemporanea. Qui sotto trovate un mio articolo di anticipazioni sulla mostra, pubblicato oggi, venerdì 16 settembre 2011, sul settimanale Il Venerdì di Repubblica (pagg. 106-107). Buona lettura.
Mumbai: 21 milioni di abitanti. New Delhi: 17 milioni. Kolkata: 16 milioni. Sono solo tre delle megalopoli protagoniste della nuova India, un Paese che sembra farsi beffe della crisi economica mondiale mantenendo una crescita annua dell’8%. Un simbolo di questo vorticoso sviluppo è l’imponente progetto che lo Stato indiano sta realizzando: la prima autostrada a 8 corsie che colleghi tutte le metropoli di questo immenso Paese. Pur non avendo ancora superato i problemi endemici del passato (il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà) l’India ha dunque imboccato l’autostrada per il futuro, e appare perciò azzeccato il titolo Indian Highway per la grande mostra di arte indiana contemporanea al Museo Maxxi di Roma, dove rimarrà aperta dal 22 settembre 2011 al 29 gennaio 2012. «Partendo dall’idea dell’autostrada come elemento di connessione tra i flussi migratori che si spostano dalla periferia alla città, Indian Highway testimonia attraverso il percorso espositivo la crescente centralità mondiale della civiltà indiana, anche dal punto di vista artistico, a partire dagli anni Novanta fino ai nostri giorni», spiega Anna Mattirolo, direttore di Maxxi Arte.
Esposta per la prima volta alla Serpentine Gallery di Londra nel 2009 e transitata poi in varie città europee, «Indian Highway cambia fisionomia ad ogni tappa arricchendosi di nuove opere, come le quattro grandi installazioni create specificamente per la nostra sede», aggiunge Giulia Ferracci, co-curatrice della mostra romana. «Una di queste – Strands, di Harsha – accoglierà i visitatori all’ingresso della mostra: 700 volti dormienti, dipinti come antiche miniature sul cemento della piazza, si “risveglieranno” e prenderanno vita al passaggio dei visitatori».
Esaminando in anteprima la sessantina di opere presentate al Maxxi – quadri, installazioni, video, documentari – si trovano ben rappresentati tutti i principali temi che identificano oggi l’arte indiana. A partire da due punti focali: quello del senso della “indianità” odierna, e quello dell’attenzione ai mutamenti sociali. Infatti a differenza degli artisti cinesi contemporanei – che nell’ultimo decennio hanno imitato con risultati alterni l’arte occidentale – gli artisti indiani concentrano la propria riflessione su cosa significhi essere indiani in una società che sta abbracciando la globalizzazione. E a differenza degli artisti europei – che spesso si sono persi in fumose considerazioni sull’ “arte per l’arte” – gli indiani rivolgono tutta la loro attenzione sui mutamenti e gli squilibri che lo sviluppo economico produce nella società. Si possono definire quindi – con un’espressione un po’ antiquata ma in questo caso calzante – “artisti impegnati”.«Gli artisti indiani oggi rivelano nelle loro opere un attivo impegno politico e sociale, affrontando questioni complesse in un Paese in transizione verso la modernità, questioni come l’ambientalismo, la globalizzazione, i rapporti fra i sessi e fra le classi sociali» spiega Hans Ulrich Obrist, Co-Direttore della Serpentine Gallery e primo curatore di Indian Highway a Londra. «E all’interno di Indian Highway i video-artisti riuniti nel Raqs Media Collective (presenti anche a Roma, ndr.) hanno invitato altri artisti per una sorta di “mostra nella mostra”, molti dei quali hanno presentato opere di esplicito impegno politico». Per esempio The Lighting Testimonies di Amar Kanwar, che raccoglie testimonianze di donne violentate nelle passate guerre fra India e Pakistan.
Non è un caso che molte delle opere esposte anche a Roma siano video. Il video permette infatti di
rappresentare più direttamente la realtà sociale, le sue trasformazioni e le sue contraddizioni. «Nell’edizione romana di Indian Highway è presente anche un gruppo di nuovi artisti come il Desire Machine Collective, che realizzano video oscillanti fra il documentario sociale e la fiction» conclude Obrist. Questo interrogarsi sull’identità di una società in transizione è esplicito in Hawa Mahal di Vipin Vijay. Il suo video è una dolente riflessione sul contraddittorio rapporto fra l’India antica, con la sua spiritualità, e quella moderna; un rapporto esemplificato dall’immagine di un bimbo dal viso azzurro acconciato come il dio Shiva, tristemente reclinato su un muretto che ha alle sue spalle una selva di antenne e palazzi.Il tema dell’identità di un Paese in transizione torna anche in molte installazioni. Come la parete – lunga 27 metri – di pentole e stoviglie di alluminio e acciaio realizzata da Subodh Gupta: le stoviglie di metallo sono le più diffuse nelle case povere perché infrangibili, e riassemblandole in quel modo Gupta rimanda a un ambiente tradizionale indiano cambiando però il senso stesso degli oggetti, ridislocati in contesto moderno. Non meno affascinanti sono le “città verticali” di Hema Upadhyay (celebrata di recente anche al Centre Pompidou di Parigi) che trasforma le pareti e il soffitto di una stanza in una strada di Mumbai, facendo di quella stanza un soffocante micro-universo pieno di modellini di case che si protendono verso il visitatore. Così l’India globalizzata si interroga su stessa e interroga noi, sul senso di una modernità incombente che rischia di perdere memoria e identità culturale.
Per informazioni sulla mostra: tel. 06 32810, www.fondazionemaxxi.it