L’Abbazia di Port Royal
Il gelato di Pascal
Dire che Carlo fa dei gelati è come affermare che Palladio costruiva delle villette a schiera.
Carlo non fa dei gelati. Carlo compone dei madrigali. Dei poemetti in ottava rima. Dei ricercari. Dei neumi di sapori che si sciolgono in inni estatici.
Armonie di sapore, di aroma, di colore che si coagulano in un ghiacciato procedimento misterioso, i cui algidi passaggi sono misurati fino al minimo gesto, a comporre in un tutt’unico morbido e rappreso una divina beatitudine.
Questi gelidi mottetti zuccherini dispiegano la loro magia in un mosaico di colori che ammiccano dal suo banco. Mai troppo accesi, perché le loro delicatezze naturali non sopportano artifici di sorta.
Dunque il verde pallido della menta e del basilico (ma di due verdi pallori diversi) e quello cremoso del pistacchio, il beige rosato del dattero, l’arancio-crema del melone, l’oro delicato dello zenzero, il rosa thea della fragola, l’esangue terra di Siena puntinato della mandorla, il carnicino dei petali di rosa, il bianco opalescente del finocchio e della pera, il peaux d’ange della cannella e il bianco-verdognolo del sedano, sono suggestioni discrete, quasi a celare con accuratezza il futuro trionfo del sapore, che si stempererà sorprendente sulle papille, accendendole di scintille aromatiche ed evocazioni oniriche.
Uniche intense eccezioni sono il viola-bluette del mirtillo, il rosa shocking della ciliegia, che si accende di gemme dai riflessi di rubino e il marrone profondo, quasi tenebroso, del cioccolato nativo, che ti attira subito con la potenza amazzonica del suo mistero.
Il suo regno è un buchetto di due metri per tre, occupati quasi per intero dal bancone freezer, a cui si aggiunge, sul retro, il laboratorio, di poco più piccolo. La fucina in cui l’alchimista opera e crea le sue trasformazioni della materia. E c’è appena posto per due o tre postulanti alla volta.
Carlo è schivo. Quando solleva la saracinesca del suo negozio e si prepara a diffondere per il vasto mondo il suo ghiacciato esprit de finesse, solleva il gigantesco cono di cartapesta che poi pone all’esterno, di fianco alla minuscola entrata e che funge da richiamo.
Chi passa e vede questo giocattolo un po’ kitsch, può pensare che in quel luogo si vendano gelati fatti con le polverine, adatti al palato ineducato dei turisti e, se non ha intuito, passa oltre, senza sapere (e mai lo saprà) che segretamente Carlo è un cultore di Pascal (e lui lo sa?) e nel suo microcosmo, apparentemente angusto, che in realtà si dilata a contenere l’universo mondo, ha realizzato la conciliazione dell’inconciliabile: finesse e géométrie, cuore e ragione. Sentimento e scienza. Poiché per Carlo la sua è davvero “l’arte della scoperta e dell’invenzione”, secondo i più puri principi della Logica di Port-Royal.
Lui non strilla: qui si creano opere d’arte! Suggerisce solamente. Allude. Con ironico understatement. Anzi, nasconde. Lancia un segnale ambiguo, atto a confondere le menti poco accorte, che perderà i pavidi e guiderà gli avventurosi al loro Graal. Lascia che sia il cliente a scegliere lui. È così che Carlo si sceglie i suoi adepti. Da lui arrivano solo quelli disposti a donargli la propria anima. È così che l’allievo sceglie il maestro.
Da Carlo non ci sono tavolini a cui sedersi per gustare le sue creazioni tra una parola e l’altra.
Il piccolo locale dà direttamente sulla calle ampia che unisce il campiello al ponte.
Gli iniziati alle sue delizie da sultani sanno che il solo modo per gustarle è di allontanarsi col tesoro in mano, accolto da un cono o da una coppetta, e non permettere altre distrazioni al rapimento dei sensi.
Carlo ha adepti in tutto il mondo, perché tutto il mondo passa nella sua officina di delizie.
Molti di loro, quelli che non potranno più tornare, conservano la nostalgia cocente di quelle armonie celesti e vi tornano con la memoria dei sensi nei momenti di infelicità. Narrano alcuni, che quelle evocazioni siano state sufficienti a lenire ferite del cuore, cicatrici dell’anima.
Chi invece ha la fortuna di poter traversare terre, mari e oceani ancora una volta per tornare, pregusta la felicità in segreto, nell’attesa di tornare ad onorare con la propria estasi il Maestro.
Ma tutti, indistintamente, nutrono un’inconfessata invidia per chi ha la sorte benedetta di condividere con Carlo le stesse calli e la stessa aria, senza forse apprezzare quale ulteriore benedizione la casuale nascita in quella città di sortilegi sia per loro.
Ho deciso di darti appuntamento lì, davanti al cono gelato di proporzioni gigantesche, perché tu, assaggiando i suoi gelati, perda la testa per me.
La mente funziona così, sostengono alcuni filosofi. Secondo associazioni. E quando penserai alla mia bocca, sentirai il sapore del suo gelato di ciliegia. E quando penserai ai miei occhi, sentirai il gusto del suo cioccolato nativo, e quando penserai al mio odore ti sentirai invaso dal sapore del suo gelato al basilico.
Il basilico, lo sai? è la pianta regale. Possiede poteri arcani. E’ afrodisiaco, guarisce le ferite del corpo e del cuore, inebria l’anima con il suo aroma penetrante. Gli antichi lo raccoglievano solo dopo elaborati riti di purificazione. Possiede poteri magici, dissolve l’oscurità della mente, placa lo strazio del cuore. Accende la seconda vista.
Ma non ti ho detto nulla, perché deve essere una sorpresa. E un esame.
Che gusti sceglierai? Che reazioni avrai nell’assaggiarli? Sorpresa? Meraviglia? Gioia? E, cosa che mi preme sapere, supererai l’esame?
Vedo la tua figura alta e un po’ curva che spunta in fondo alla calle. Cammini in fretta, per arrivare prima di me. Ma io sono, questa volta, un po’ in anticipo, perché volevo vederti arrivare. Tieni così tanto allo stile e alla misura, che mi incuriosisce vedere la tua faccia di fronte al gelatone kitch.
Ti picchi di essere il discendente di mercanti che andavano per mare a comprar tesori di cui riempire l’Europa e le proprie tasche e giustifichi il tuo esasperato gusto del bello con le meraviglie di cui i tuoi antenati si riempivano gli occhi, che si sono fissate nel loro DNA per trapassare fino a te.
Forse hai ragione. Nelle tue severe giornate di costruttore di barche, vorticanti di numeri e calcoli, di misure e proporzioni, coniughi il mare e la bellezza. Ma ti è rimasto dentro un recesso in cui hai cacciato una sorta di rimpianto per un Oriente caotico, colorato e rumoroso. Di un Oriente antico che non esiste più. O così credi.
Dunque quel nascondiglio segreto l’hai imbozzolato in una stretta pania di snobismo, quasi di alterigia, che è la cosa di te che mi dà ai nervi.
Così oggi hai da fare il tuo esame.
Del resto, non mi dici, quando la tua ragione si distrae, che sono la tua odalisca turchesca? E non mi hai regalato un paio di orecchini di turchese?
Mi sono chiesta che ci faccio io con uno snob come te. Mi pare che ti siano più adatte quelle donne alte, magre, un po’ mascoline, brave a governare in mare con pantaloni bianchi aderenti, la pelle segnata dal sole e i capelli lisci e sottili, di un color biondo un po’ smorto. Donne che indossano Burberry’s e Ballantyne leggermente usurati con la distrazione e noncuranza di chi non ostenta vecchio denaro. Donne snob come te.
Quando arrivi davanti alla gelateria ti leggo in faccia lo stupore. Mi viene da ridere. Portarti in un posto simile? Con quel ridicolo cono di cartapesta verniciato di colori volgari?
<<Entriamo>>, ti dico senza far trasparire l’ilarità. Il mio tono è serissimo. Sulla tua faccia scende un sipario di disgusto. La tua opinione di me è crollata all’istante.
<<Vuoi scherzare?>> mi dici, arricciando gli angoli della bocca e stringendo gli occhi in due fessure d’ombra. In mezzo alle sopracciglia ti si disegna una ruga verticale.
<<Affatto. Entriamo>>, insisto. <<Allora non ti fidi di me?>>
Esiti. Te l’ho messa giù dura. <<Sì, ma….>>
<<Ma cosa? Se ti dico di entrare una ragione c’è.>>
<<Andiamo al Florian. Ho voglia di sedermi e parlare tranquillo.>>
Al Florian? Ci vanno i turisti americani e giapponesi! E’ un posto per vecchie signore e nostalgici. Per amanti che vengono a vivere l’illusione dell’amore eterno in una città dove tutto muta ad ogni istante. Uno scrigno prezioso, romantico, te lo concedo, ma così paludato. M’avessi detto all’Harry’s Bar… ma il Florian…
Non so perché, ma tutte le volte che mi ci porti, al tavolino vicino mi pare di vedere von Aschenbach che si asciuga un rivoletto di sudore colorato che gli gocciola dai capelli tinti, irriverente, lungo il collo.
Ma hai una tale infelicità negli occhi, un tale disagio, che lascio perdere.
<<Tu non sai cosa hai appena rifiutato di scoprire>>, ti dico con voce piana. <<Del resto>>, aggiungo proprio per non farti sconti, <<Pascal non ti è mai piaciuto – che follia – e non sei mai certo stato un frequentatore di Port-Royal.>>
<<Pascal? Port-Royal? E che c’entrano?>> mormori con un’espressione sconcertata, quasi disorientata. <<Certe volte i tuoi nessi logici proprio non li capisco>>, dici con una scintilla di preoccupazione.
<<No, e non solo i miei>>, ti rispondo ridendo. Taci.
<<Era così per dire!>>, aggiungo con generosità.
Mi guardi e scrolli la testa, quasi tu fossi un vecchio saggio di fronte a un’allieva ribelle e un po’ tonta. Ma mi rendo conto che spiegare non servirebbe a nulla.
Io finesse, tu géométrie. Avrei voluto unirle nella fucina di Carlo.
Camminando per le calli, fingo di distrarmi guardando le vetrine e la gente. Mi svincolo dolcemente dalla mano che mi insinui sotto il braccio.
<<Non ti sei fidato di me>>, ti dico seduta a un tavolo del Florian.
<<Ma cosa dici! Sempre così esagerata>>, rispondi con un sorriso stirato.
<<Sì, ti sei fermato alle apparenze>>, ti rispondo guardando il bagliore della luce di taglio sui vetri delle Procuratie.
E so già che più tardi ti saluterò con una scusa e andrò a comprarmi un gelato al basilico.
(C) 2012 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA