Giuseppe Casarrubea
Budapest, festa nazionale del 15 marzo
L’italiano, come tutte le lingue neolatine, è una lingua rigida, fatta di soggetto, predicato e complementi; periodi principali e secondari, incidentali e sequenze di discorsi secondo un ordine che generalmente va dal nome a ciò che si reputa marginale, non essenziale. Contano di più i soggetti e le loro azioni. E’ una lingua che riflette la nostra storia, dall’Impero romano ai nostri giorni, ed esprime meglio di tutte le altre, forse, la centralità dell’uomo in relazione alla sua iniziativa, al suo agire. Una lingua dal carattere pragmatico e utilitaristico, dalla millenaria storia.
Ma dopo la decadenza di questo immenso Impero che andava dall’Oceano Atlantico ai confini dell’India e del mondo allora conosciuto, includendo il Mare Nostrum, altre civiltà sono sorte con analoghe pretese di unificazione globale. Una di queste è il Regno d’Ungheria, durato nove secoli, la cui estensione, in epoche molto vicine alle nostre, correva dall’Adriatico a molta parte dell’Europa orientale. Cominciò per primo Arpad e proseguì re Stefano che unificò varie tribù ed etnie della grande pianura superando la frammentazione di reami e popoli e fondando una sintesi culturale e sociale dell’Europa, dopo quella degli imperatori di Roma.
La lingua di un popolo altro non è che il riflesso immediato e sempre vivo della civiltà che ha vissuto. E’ ciò che lo unifica e che ne fa la migliore espressione del suo modo di essere, delle ragioni delle sue condizioni e delle sue potenzialità.
Ma il magiaro, nonostante a scuola ci abbiano spiegato a modo loro chi erano Attila, gli Unni, gli Ostrogoti e i Visigoti, non esprime una storia di guerre. Ma una filosofia di pace. A differenza del latino: la lingua del potere per eccellenza.
Sembra che la lingua ungherese sia di origine ugro-finnica, ma altri la fanno risalire a popolazioni oscure, perse nella notte dei tempi. Ma se è vero che la lingua esprime la storia del suo popolo, quello che si forma nel corso dei processi storici, e non perché salta in mente a qualche rozzo cafone padano, possiamo dire che i magiari hanno una lingua che possiamo definire fondata su una grammatica flessibile, su una cultura rispettosa delle persone e della natura.
Alla rigidità delle lingue neolatine essa sostituisce un ordine qualitativo diverso. Una diversa filosofia. L’ordine delle parti del discorso varia. Se si assume, ad esempio, il nome come un elemento centrale, conta molto ciò che sta alla sinistra di questa parte del discorso,mentre per noi ciò che sta alla sua destra è l’espressione di quasi tutto ciò che lo segue e raramente lo precede. Il nome, prima di tutto. Il soggetto è anche l’io, la sua centralità, il suo essere eccentrico, il suo potere, il comando che ne deriva. Ma se dovessimo scrivere attribuendo al discorso una sua innaturale valenza politica potremmo dire che mentre per i latini ha maggiore peso ciò che sta alla destra del dio padre, il nome appunto, per i magiari accade il contrario. Perché tutto ciò che sta alla sua sinistra può avere un rilievo ancora maggiore. Con la costante, ad esempio, che è possibile persino omettere le terze persone singolari o plurali. Ad esempio: ‘i fiori sono belli’, ‘il fiore è bello’. Devi dire: ‘fiori belli’, ‘fiore bello’. Il verbo, in questo caso , la copula, è superflua.
Questo non è solo esempio di riduzione a sintesi del pensiero, perché se dico: ‘i fiori sono gialli’, non solo ometto il verbo, ma metto a sinistra del nome ciò che reputo più importante per me. E cioè il colore che mi attira di più, il suo essere giallo. Quindi la mia espressione sarà: ‘i gialli fiori’. E questo non significa che per gli ungheresi i fiori sono secondari rispetto ai loro colori, ma semplicemente che, nulla togliendo alla centralità dei fiori, ciò che per loro è qualificante, esaltante, è il fatto che essi appaiono gialli. E’ la loro qualità. In parole povere un modo di rovesciare la visione del mondo in senso naturalistico, qualitativo, direi quasi, poetico.
Altro dato che ho notato nella lingua magiara è che tende a fagocitare, a inghiottire altre parti del discorso. Non esistono, ad esempio, le preposizioni semplici o articolate, tutte incorporate in coda alla parola (ad esempio: ‘Andare a Budapest’ si dice ‘Budapestre menni’). A parte la preposizione l’andamento del pensiero va dal nome all’azione, come nel siciliano: ‘ ‘Mpalermu iu’ – ‘Andò a Palermo’, o ‘Montalbano sono’, espressioni in cui il verbo latinamente segue il nome. Esattamente come gli ausiliari dei verbi essere ed avere si includono spesso dentro i verbi o certe espressioni rendendo la parola auto esaustiva. Nessun ungherese dice : ‘ho freddo’, ma ‘fazom’, eliminando l’inutile ausiliare. Oppure: ’ho amato’, ma ‘szerettem’. ‘ Ho mangiato’ e ‘Avevo mangiato’ sono lo stesso tempo e si esprime con l’espressione ‘ettem’. Insomma non esiste la diversità dei tempi passati. Quelli che da noi sono il passato prossimo, il trapassato prossimo, il passato remoto, il trapassato remoto, l’imperfetto e altri tempi del futuro come ad esempio il futuro semplice e quello anteriore.
C’è un solo passato e un solo futuro. Con buona pace di tutti, e soprattutto degli alunni a cui in Italia i professori per anni praticano le torture della grammatica italiana che essi stessi manco conoscono.
Altra significativa particolarità è l’inesistenza dei diminuitivi e degli accrescitivi dei nomi e del genere maschile e femminile sia delle persone sia anche delle cose. Non ci sono, ad esempio, gli omaccioni, ma degli uomini grassi, come non esistono i ragazzacci, ma i ragazzi poco educati, o cattivi. Lei e Lui hanno la stessa forma: Ő. Un ungherese non dirá mai ‘Ő őt nézte’ (lui o lei lo/la guardava) perché non si capisce chi dei due guardava l’altro. Ma dirà: ‘L’uomo guardava la donna’ o viceversa.
Così non esistono il leone o la leonessa, il mare o la montagna nel loro genere. Il cielo non è né maschile né femminile, e la stessa sorte tocca a tutto ciò che si muove sulla superficie della terra. Se questa non è democrazia e cultura io non so che cosa siano queste parole.