Il post 73 “Fine dei miracoli” sul blog Scire di Danilo di Diodoro (che riprende un articolo su The Lancet), mi ricorda tanto la “fine della storia” di Fukuyama: un argomento interessante ma con una tesi discutibile.
Non sono medico, ma qui si fa filosofia della scienza e in un mondo complesso e globalizzato credo che, come occidentali, dovremmo cominciare ad avere maggiore umiltà capacità di relativizzare il nostro approccio culturale anche in questo campo.
Va bene mettere in guardia dai miracolismi e dai venditori di miracoli - e ben venga il metodo scientifico e l’EBM per smascherare gli inganni di approfittatori e il sensazionalismo dei mass media - tuttavia sostenere che la Medicina avanzi SOLO “per piccolissimi passi, per faticosi e lenti miglioramenti che vanno ad assommarsi gli uni agli altri. Niente più eroi” è assolutizzare non solo un metodo scientifico, che ha ANCHE dei limiti, ma soprattutto un sistema di ricerca biomedica - legato ad un sistema economico centrato sulla massimizzazione del profitto - che INVECE fa acqua da tutte le parti.
Parafrasando, ricorda la storiella dell’ubriaco che ha perso la chiave per strada ma la cerca sotto il lampione di casa perché “lì c’è la luce “.
Non voglio fare l’apologetica dell’eroe solitario, ma si tratta di avere semplicemente il senso di quanto ancora la medicina non sa spiegare e di quanto questo sistema di ricerca influenza ciò che viene (o non viene) indagato e può (o non può) venire scoperto, dalla capacità di “vedere” davvero (la Verità con la V maiuscola di “This is water” di David Foster Wallace - nella foto).
E’ comprensibile sostenere realisticamente che non possiamo (non conviene) costruire un sistema di ricerca sperando nel genio di un singolo, tutt’altro è pensare che non ci saranno mai più persone geniali, fortunate, ostinate, o anche semplicemente con un bagaglio e un approccio culturale diverso che sapranno vedere dove gli altri non hanno saputo vedere.
Inoltre, tornando al metodo scientifico, dato che per falsificare una tesi è sufficiente un singolo caso, dal punto di vista scientifico è scorretto affermare che i singoli casi di “genialità” confermano invece che smentire la tesi del dottor Sanghavi.
Certo è ancora presto per dire se il caso del prof. Paolo Zamboni con la sua ipotesi sulla correlazione tra CCSVI e Sclerosi Multipla potrà essere l’esempio che smentirà la tesi del dottor Sanghavi - e qui lascio ovviamente la verifica alla scienza medica (con la precisazione però che la scelta di quanto e in che direzione investire dovrebbe seguire criteri più trasparenti e socialmente partecipati) - ma è interessante osservare come, in questo caso, anche su temi così complessi e specialistici i pazienti direttamente interessati non stanno più semplicemente a guardare e a fare il tifo, ma arrivano ad associarsi, approfondire, discutere e porre questioni in maniera molto significativa e centrata.
Per questo alla condivisibile conclusione che “Più è complessa la patologia, più diventa importante lo sforzo congiunto e ben articolato di tante persone che sappiano fare bene il proprio lavoro, che sappiano coordinarsi in un’azione efficace e comune. Specialisti, medici di famiglia, infermieri, riabilitatori, operatori domiciliari, esperti della prevenzione, c’è bisogno che tutti lavorino al meglio, e solo questa azione combinata potrà garantire i migliori risultati al malato” aggiungerei che si deve includere una figura chiave: il cittadino-paziente “empowered”.