Dai romanzi di Milan Kundera ai saggi di Maurice Merleau-Ponty, le disquisizioni sulla filosofia del corpo mi hanno sempre appassionato molto. E così, quando in libreria ho adocchiato Il gesto cavo, ho capito subito d’aver trovato pane per i miei denti.
Marina Rippa, fondatrice del gruppo di ricerca teatrale “Libera Mente” di Napoli, illustra in queste pagine il senso del suo lavoro sul movimento e sulla drammaturgia del corpo, unitamente a una concezione del teatro inteso come «spazio di incontro, di rapporto, di partecipazione, come spazio del desiderio e dell’emozione, affidati all’immediatezza dell’espressione della persona nella sua totalità». Ecco allora che una riflessione, per così dire, centripeta e insieme centrifuga sull’uomo contemporaneo e sul suo corpo non può non fare i conti con le scienze umane e con la stessa filosofia, dal momento che ciò di cui si occupa l’autrice è, propriamente, «lavorare sull’identità dell’attore, sulla corporeità integrata che superi il dualismo integrante tra mente e corpo».
Nel testo – una quarantina di pagina appena, ma capaci di offrire numerosi e molto pregnanti spunti di riflessione – vengono inoltre riprese le teorizzazioni di Botho Strauss, per il quale bisogna «Non essere altro che il semplice gesto di chi ti ascolta. Il gesto cavo», e di Eugenio Barba e del suo Manifesto del Terzo Teatro, dove si legge che il teatro è uno «strumento che permette di trovare il proprio modo di essere presenti, cercando rapporti più umani tra uomo e uomo nell’intento di realizzare una cellula sociale in cui le intenzioni, le aspirazioni, le necessità personali cominciano a trasformarsi in fatti».
Ebbene, personalmente leggendo queste considerazioni non posso non pensare a François Regnault che affermò che il teatro presenta “il Discorso dell’Altro”; ma soprattutto, se è vero che la rappresentazione scenica implica il rappresentare a qualcuno prima ancora del rappresentare qualcosa, allora il teatro è la duplicazione e la moltiplicazione stessa della presenza, in quanto sottende già la compresenza: teatro come prassi del soggetto che dà segno di sé e, dunque, come presentazione e interazione di corpi con altri corpi. Direbbe Jean-Luc Nancy che il mio corpo è già da subito teatro perché la sua stessa presenza è duplice, ma che, nella dicotomia tra il dentro e il fuori e tra il dietro e l’avanti (ovvero tra l’io e il mio corpo) ogni presenza si sdoppia per presentarsi. O, per dirla con le parole di Marina Rippa, il teatro non dovrebbe avere come unico scopo quello di creare spettacoli, ma relazioni «attraverso cui ritrovare noi stessi, le nostre intimità, le nostre identità nel rapporto con l’altro».
Marina Rippa, Il gesto cavo, Marotta&Cafiero editori, i Maggiolini, Napoli 2011, 40 pp., 2 euro