La morte e il corpo, la malattia e le debolezze, il sesso e le illusioni perdute, tra cui quella che Kundera ha definito “la più bella delle illusioni europee”, quella – fiorita con il romanzo – dell’unicità insostituibile dell’individuo, sono le tematiche portanti della nuova raccolta dell’amico Paolo Zardi, “Il giorno che diventammo umani”.
Non sono unici, i suoi protagonisti, né insostituibili, anzi, spesso sono sostituiti, anche dopo un dramma, anche dopo la loro stessa morte, da chi rimane. Sostituibili, in parte intercambiabili anche nella mente del lettore, e non perché non siano sufficientemente caratterizzati, direi al contrario: lo sono fino al punto di poter essere ridotti alle loro particelle elementari. Se l’individualità è determinata da una serie innumerevoli di piccoli e grandi eventi che formano il nostro unico codice a barre, le singole barre sono, prese una alla volta, assolutamente identiche a quelle che compongono gli altri esseri umani che incrociamo sul nostro cammino. Se lo scrittore, di norma, predilige porre l’accento sull’unicità del codice, selezionando tra i milioni di episodi che compongono una qualunque vita quelle sequenze così particolari da darci l’illusione (a noi lettori, intendo) di avere davanti un essere umano assolutamente unico e inimitabile (e di esserlo a nostra volta, unici, inimitabili e insostituibili), il percorso artistico di Zardi mi sembra andare in direzione contraria.
L’umanità del titolo mi appare così quasi come una negazione dell’illusione di cui parla Kundera (così bella, eppure, così rassicurante), “umani” (troppo umani?) in quanto appartenenti al genere umano, non in senso etico.
Uomini e donne, i protagonisti di queste storie, ultracentenari o appena adolescenti, soli in cerca disperata di compagnia oppure in fuga da una routine fin troppo serena, ognuno di loro viene scomposto per mostrarci che sotto la pelle, sotto i muscoli e le ossa, oltre il ragionamento, le costruzioni della memoria e del sentimento, quel che resta di noi sono le voci primordiali e imperiose del desiderio e della paura. A volte una in opposizione all’altra, come funi implacabili, la fame di vita e la paura della morte, spesso misteriosamente alleate, come una febbre che divora.
In questa autenticità, di esseri desideranti e impauriti, si svela un’umanità difficile da sopportare, difficile da leggere, anche, che respinge e impaurisce.
Vorremmo forse pensarci migliori di ognuno dei personaggi creati da Paolo Zardi, vorremmo immaginare i nostri figli, i nostri amici, i nostri amanti e compagni migliori, ma dopo avere chiuso questo libro può risultare un po’ più difficile. Non dubito che passerà, esattamente come la protagonista de “Il giardino dell’Eden” non dubita che tornerà, dopo una prima volta piena di titubanze, a forzare la porta del tranquillo Paradiso da cui è escluso il male, e bandito il fuoco. Sempre con meno sensi di colpa, preoccupandosi sempre meno di darsi una spiegazione, di cercare la verità.
Ci assolveremo, anche questo è umano, oppure magari un giorno impareremo (la risata finale sembra suggerirlo) a chiamare “buono” questo percorso imperfetto, a volerlo, come insegna Zarathustra, “questo cammino che l’uomo ha percorso alla cieca”.
“Ma a chi dovevano [questi ingrati] lo spasimo e l’estasi dei loro rapimenti? Al loro corpo e a questa terra.” (da Friedrich Nietzsche _ Umano, troppo umano)
.