di Marilù Oliva
Il romanzo “Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi” (Fandango) di Maurizio de Giovanni comincia in una mattina napoletana sopravvissuta alla pioggia. Siamo in pieno ventennio fascista, il clima di oppressione si sovrappone alla povertà dei quartieri bassi quando, ai piedi dello scalone che porta a Capodimonte, viene trovato il cadaverino grigio di un bambino. È Matteo, Tettè, scugnizzo affidato alla sorte, spesso cattiva, che tocca ai miserabili. C’è chi vuole chiudere il caso imputando la morte agli stenti, ma Ricciardi non è convinto, fa partire le indagini e le prosegue personalmente.
In questo quarto libro del ciclo del commissario Ricciardi, Maurizio de Giovanni dà ulteriore prova della sua sensibilità di autore, grazie a una prosa capace di imprimere nel lettore la disperazione e il male con intensa delicatezza. Una scrittura pulita, fluida, scorrevole come la pioggia che bagna le pagine, malinconica come questo autunno lontano in cui tutto sembra rarefatto: i segreti, i peccati, i sospiri d’amore. Ecco come ha risposto all’intervista…
Siamo nel 1931, sotto una pioggia battente viene ritrovato su uno scalone un bambino morto. Vicino, il suo cane vivo. Il bimbo ha segni di denutrizione e maltrattamenti, è un randagio, un disperato. Si può definire questo libro un viaggio nell’inferno della disperazione dei reietti ma anche nella tenerezza (quella tutta umana provata dal commissario Ricciardi)?
Ti posso dire che in assoluto è stata la cosa più difficile da scrivere, per me. Seguire l’ultima settimana di vita di questo bambino, scavare con Ricciardi nella melma in cui tentava di sopravvivere, prendere progressivamente coscienza di quanto sia senza speranza la sorte di questi scugnizzi randagi e abbandonati mi ha fatto molto male, e per giorni dopo aver chiuso il romanzo il mio umore ne è rimasto segnato. Tettè (il nome del bimbo) mi manca, acutamente: come se lo avessi conosciuto realmente e lo avessi perso. La tua definizione del libro perciò è perfetta, per me.
L’idea della morte, la visione della morte accompagna il commissario Ricciardi oltre la sua ripugnanza. Si chiama “Il Fatto”, questo dono, e le regole sono chiare: Ricciardi vede i morti nel momento in cui trapassano e sente i loro ultimi pensieri. È una finzione narrativa o tu ci credi a questi fenomeni paranormali?
Credo che il cervello umano abbia poteri e funzioni molto lontane dall’essere esplorate compiutamente. Credo che le emozioni forti, come la morte violenta, imprimano un’impronta, impregnino l’aria e lo spazio in cui si verificano. Credo che il contatto fra le persone dotate di una maggiore sensibilità sia un fatto fisico, come vedere meglio o avere un udito più acuto. Credo soprattutto che riteniamo magico e soprannaturale solo quello che non riusciamo a spiegare. Detto ciò, il Fatto è un modo di rappresentare fisicamente l’acuta percezione del dolore altrui di Ricciardi, e l’impossibilità di sfuggirne.
Com’è per un uomo, vivere con questo dono che è al contempo un grande fardello?
Il Fatto non è un dono, per Ricciardi. Non lo è mai stato. E’ una dannazione, il segno di una solitudine perenne e disperata, qualcosa che lo rende il cittadino unico di una città che ha vivi e morti che coesistono senza avere gli uni la cognizione degli altri. La scena di maggior orrore che io abbia scritto è la passeggiata di Ricciardi con la piccola Antonietta, una minorata che ha la sua stessa “vista”, alla fine de “La condanna del sangue”, in cui morti e vivi si mischiavano inconsapevolmente, pervadendo l’atmosfera dei loro dolori, delle loro emozioni.
Ti è mai successo qualcosa di strano, in questo senso?
Sì. Ma non ne parlo volentieri.
Ricciardi e le donne: nonostante le attenzioni di una bella e affascinante vedova, a Ricciardi piace la semplicità e la riservatezza, nelle donne…
Bisogna ricordare che a Ricciardi è preclusa la normalità. Assistere dalla finestra a scene di vita familiare semplice, serena, ha per lui un fascino immenso. Enrica, la sua quiete, i movimenti lenti e accurati, costituiscono per il commissario un panorama struggente e di indicibile bellezza. E’ profondamente innamorato di Enrica, ma fa un ragionamento semplice (che però in amore assai raramente si fa): se voglio bene a qualcuno, voglio il suo bene. E se il bene di Enrica è stare lontana da me, dalla mia dannazione, dal marchio di perenne dolore che porto dentro, dalla possibilità che i miei eventuali figli portino la stessa condanna, allora devo starle lontano. E soffrire da solo.
Il tema del dolore e dell’orrore della vita non è disgiunto dall’incanto per la bellezza della stessa. Tu come ti poni di fronte a questa antinomia?
La vita ti prende e ti porta, non ti lascia scelta. Opporsi alla corrente raramente sortisce effetti, e spesso quella che sembra una perdita dolorosa col tempo si rivela una nuova opportunità. Il dolore e l’amore, l’orrore e il piacere sono facce della stessa medaglia, e vanno accettati con la maggiore serenità possibile. I sentimenti rendono la vita degna di essere vissuta, non ha alcun senso cercare di sottrarsi alla propria umanità.
Lo sfondo politico è quello del trentennio fascista. Più precisamente, quell’autunno 1931 in cui a Napoli si sta attendendo la visita di Mussolini, «l’Uomo al quale tutto il popolo italiano guardava con fiducia illimitata». Come si è conquistato la fiducia sconfinata del popolo? Qualche personaggio del tuo romanzo lo sa bene, ma farebbe meglio a trattenersi, visto il clima di oscurantismo…
Il consenso acritico, lo sappiamo bene anche di questi tempi, è una malattia altamente contagiosa. Come diceva benissimo il grande Flaiano, gli italiani sono abituati ad accorrere in soccorso del vincitore. In questo, gli anni trenta sono facilmente leggibili dall’attuale prospettiva. La lettura dei giornali e dei documenti dell’epoca, che pure vanno presi col beneficio dell’inventario per il controllo della stampa e dei mezzi d’informazione, riferisce di un clima euforico e gioioso che non trova riscontro nella miseria e nell’enorme difficoltà a sopravvivere di interi strati della popolazione. Pur mantenendo questi elementi sullo sfondo della narrazione, cerco di riportare le contraddizioni di quel tempo. Non escludo che nei prossimi romanzi qualcuno dei personaggi possa entrare in più aperta collisione col regime, riportandone gravi danni.
La tecnica: come procedi, quanto scrivi, quando capisci che il romanzo è concluso anche dal punto di vista della revisione?
Presto detto: raccolgo documenti, testimonianze, fotografie, e poi procedo alla redazione di una scaletta accurata, un vero e proprio sommario del romanzo diviso già in capitoli. Questo lavoro può prendere anche quattro, cinque mesi. Poi mi immergo nella stesura del romanzo in un’unica soluzione, tre o quattro settimane da cinque ore al giorno, senza nemmeno rileggere perché ormai so come va a finire la storia. Il lavoro di editing è a carico della mia straordinaria compagna, ed è un lavoro talmente buono che né il terzo né il quarto romanzo hanno subito cambiamenti dalla casa editrice.
Progetti?
Per ora mi godo l’esplosiva partenza de “Il giorno dei morti”, questa settimana al ventunesimo posto della narrativa italiana; e giro un po’ l’Italia per le presentazioni, incontrando gli appassionati di Ricciardi che sono molto più numerosi di quanto mi sarei mai aspettato. Successivamente comincerò a lavorare per Einaudi Stile Libero, con cui ho firmato un contratto per quattro romanzi. Spero di essere all’altezza, si tratta di una difficile sfida.