Minimoblog, della rete Minimalisti.it, oggi dedica un post ad un esperimento di decluttering settembrino per coloro che sono incuriositi, vorrebbero, sì bello però non possono, piacerebbe ma non hanno tempo, dai che ci provano, eccetera eccetera dichiarando settembre il mese del decluttering e proponendo di fare il primo passo, quello da cui tutti di solito cominciano. Chiunque, in casa, ha un cassetto in cui ci infila qualunque cosa. Provate ad aprirlo e a riordinarlo, sempre che non si sia incastrato: si comincia con il riportare il cassetto ad uno stato di decenza e, a poco a poco, visti i risultati, ci si fa prendere dall’entusiasmo e si aggredisce l’intera casa.
Non sono nata ordinata: quando avevo dodici anni i miei, stufi di combattere contro il caos della mia stanza, decisero che non avrei ricevuto regali per il compleanno. L’iniziativa, alquanto spiacevole, diede i suoi frutti: escogitai una strategia. La stanza da quel momento rimase apparentemente sempre in ordine; nessuno poteva però aprire un armadio pena la morte per soffocamento, sotto la mole degli oggetti che ne sarebbero franati fuori. Per anni, inoltre, ho accumulato cose, come ho già raccontato qui.
Crescendo mi sono resa conto che non sopporto il casino nei luoghi in cui vivo: ho bisogno dell’ ordine esterno che faccia da contrappunto ai miei garbugli interiori. Inoltre, durante gli anni dell’università e, soprattutto, della prima esperienza lavorativa, ho imparato a mie spese che l’organizzazione è fondamentale: le ore che si perdono a fare le cose in modo schematico si riguadagnano in salute – niente ansie o nervosismi – e in tempo libero. L’esperienza minimalista del Cammino di Santiago è stata la ciliegina sulla torta: nell’autunno del 2009 ho cominciato a fare piazza pulita dei cumuli di oggetti accatastati nelle stanze in cui vivo.
All’inizio dell’anno scorso è morta mia madre: le persone reagiscono al dolore in molti modi. Potendo scegliere, avrei mandato il mondo a farsi benedire e mi sarei chiusa in camera a lasciarmi scorrere addosso i giorni. Non potendo farlo, dato che dovevo uscire di casa per lavorare, e non avendo la minima voglia nè di imparare cose nuove, nè di viaggiare, nè di farmi coinvolgere in qualunque cosa richiedesse una partecipazione mentale, ho occupato molto del mio tempo libero a fare ordine. Mi guardavo intorno e vedevo cose, oggetti che, nel contesto di quanto era successo, avevano perso ogni significato. Non mi dilungo sui retroscena emotivi di quanto sto scrivendo: sono sicura che avete capito. Normale, anormale, assurdo, inutile, terapeutico: sono del parere che ognuno di noi, davanti alla perdita delle persone che ama, abbia il dovere, nei confronti di se stesso, di trovare un modo per reagire e abbia perciò il diritto di scegliersi la propria via. La mia sta passando anche attraverso la ridefinizione di quanto per me è importante.
Dal solaio alla taverna – e vivo in una casa piuttosto grande – sono quindi passata come un inesorabile ciclone ad aprire gli armadi, dividere gli oggetti nei canonici tre mucchi ( lo tengo, lo butto, ci penso ancora un po’), spostare e riordinare tonnellate di cose che si erano accumulate in casa a partire dagli anni 60. Mia madre non buttava per convinzione: può sempre servire, diceva. Credo faccia parte dell’inevitabile bagaglio della generazione nata e cresciuta a cavallo della II guerra mondiale che ha conosciuto la fame, è sopravissuta, e si è costruita una vita da zero.
Mio padre invece è uno spostatore di cose: le prende dal luogo in cui non servono e le mette in un luogo meno in vista e meno a portata di mano. Dato che in casa non ci sono buchi neri aperti, questi oggetti non spariscono. Si impilano uno sull’altro inesorabilmente fino a quando ti guardi intorno e ti viene voglia di bruciare tutto.
Certo che a pensarci è strano: abbiamo bisogno di soldi per vivere, abbiamo bisogno di più soldi per vivere meglio e fare le cose che amiamo, abbiamo bisogno di più soldi ancora per poter acquistare oggetti che ci aiutino ad autoaffermarci e riempiano i vuoti. Lasciamo che le campagne di marketing decidano per noi cosa è importante e cosa dodbiamo avere. Felici coloro che non soffrono di sindrome da acquisto compulsivo: nelle Marche c’è l’outlet della Tod’s. Lo frequento da anni. Lasciatemi dentro un’oretta e vedrete cosa sono in grado di fare, minimalismo o no. E’ giusto? E’ sbagliato? Non posso rispondervi. Sono figlia degli anni 70, cresciuta in una famiglia piccolo borghese di insegnanti che mi hanno sempre dato tutto quanto era nelle loro possibilità, sono cresciuta a pubblicità, sono figlia del consumismo. Non è facile smettere anche se se ne vedono ormai, oltre ai benefici, tutte le catene e i condizionamenti.
Ogni periodo della nostra vita è caratterizzato da fasi diverse: rimaniamo sempre noi stessi, in fondo in fondo, e contemporaneamente cambiamo opinioni, atteggiamenti, desideri. Leggo i giornali di questi giorni e mi ritrovo davanti il caos: oggi si annulla una legge proclamata ieri. Siamo circondati da opportunisti poco saggi e, nell’arco degli anni, ci siamo talmente adagiati nella poltrona davanti alla televisione, che facciamo fatica a capire dove finiscono i pensieri che ci inculcano gli altri e dove iniziano i nostri. Si guadagna sempre di meno, l’età della pensione si allunga, i meccanismi del mondo capitalistico intrappolano: il mio desiderio di mettere in atto, alla soglia dei 50 anni, il piano B, si fa sempre più radicato. Ci si può liberare, almeno in parte, dai clichè del mondo in cui vivo? Non mi va di decidere ad impulso, non voglio gestire pentimenti. Le cose le sto facendo seguendo un piano preciso il cui primo passo, inevitabile secondo me, consiste nello staccarsi dalla dipendenza emotiva degli oggetti. Settembre, mese del decluttering.
L’unico che fa resistenza è mio padre, attore principale della creazione del caos, che, da quando lunedi gli ho detto: “sabato si pulisce il garage”, le sta inventando tutte per farmi cambiare idea nonostante i risultati delle epurazioni, anche se non lo ammette, gli siano piaciuti molto. Augurategli buona fortuna.