A me piacciono le moto. Guidare una moto è un’esperienza davvero eccitante. Ogni moto ha un suo suono, una sua anima.
Passeggio per Edgwar road. Nel traffico pesante trenta centimetri bastano ad una moto per non fermarsi. Tutto è diverso, visto dalla sella di una moto: la tua vita, il tuo tempo.
Il ruggito di una moto che sopraggiunge attira la mia attenzione. E’ una Suzuki 500, rossa. Sembra un toro, dalla linea slanciata ma possente; proteso in avanti, selvaggio.
Il tizio che la guida si ferma; scende, la mette in cavalletto; si muove agile, a scatti; si capisce che ha fretta; infatti gira la chiave nel cruscotto e la lascia là, senza estrarla.
-“Sosta breve!”- penso. Continuo a seguire i suoi movimenti. Si toglie il casco e lo infila, con mia grande sorpresa, su uno dei bracci del manubrio, dirigendosi poi verso un negozio appena di fronte al provvisorio parcheggio.
Il cuore ha preso a battere più forte nel mio petto.
Non è la prima volta che prendo una moto in prestito senza il permesso del proprietario:
Ma ogni volta è un’emozione nuova. Ed io ho deciso di viverla anche questa volta.
Di sfuggita sbircio nel negozio: il mio pilota sta appoggiato con un gomito sul banco di vendita e parla con qualcuno.
Anche se la conversazione può sembrare impegnativa, è chiaro che a momenti sarà fuori, altrimenti non avrebbe lasciato il casco e la chiave.
Ma quei pochi istanti di imperizia mi bastano.
Con un salto sono sulla moto: poche, precise operazioni, precedono repentinamente una leggera pressione sullo “starter” elettronico ed il mostro scende dal cavalletto.
Riesco a controllarne con forza la discesa: l’impatto della ruota anteriore sul terreno è perfetto e sono già via.
Mi sembra di cogliere alle mie spalle un trambusto di grida concitate: lo sprovveduto proprietario ha senz’altro riconosciuto il rombo del suo purosangue mordere il freno. Lo vede sicuramente in lontananza filare sotto la mia guida.
Un sorriso di soddisfazione è sul mio volto mentre penso alla corsa che mi attende.
La moto la ritroveranno per lui, tutta intera, domani mattina.
Venderla a pezzi, o per intero, non rientra tra i miei interessi immediati.
D’altronde guadagno abbastanza tra scommesse e bagarinaggio. Questo delle moto in prestito è l’unico extra che ogni tanto mi concedo.
Il primo semaforo, rosso in lontananza, è arancione quando lo supero. Lascio tutti dietro, come un lampo, sulla destra.
Il seguente è rosso e mi fermo all’incrocio con la ruota anteriore oltre la linea di demarcazione dello stop.
Alle spalle sento giungere un rombo che è come nefasto per me. E’ una BMW 1000 e la guida un piedipiatti.
Intanto il semaforo dà il via ai concorrenti: parto come un razzo sulla sinistra. Anche il “madama” in moto passerà: ho solo un leggero vantaggio su di lui.
Se lui ha la moto pèiù potente, la mia è però più snella; e può anche esserci nato da quelle parti, ma la zona la conosco alla perfezione.
Devo scrollarmelo di dosso al più presto. Avrà dato sicuramente l’allarme e sulla mia scia staranno convergendo altri piedipiatti motorizzati.
La caccia all’uomo li eccita selvaggiamente, lo so bene, e sarebbe per loro più un piacere che un dovere mettermi il sale sulla coda.
Alla fine della “Ring Road”, dopo una veloce e folle corsa, con l’alito del mio cane da caccia sempre sul collo, forse l’unica occasione per seminarlo: il semaforo è appena divenuto rosso, quando attraverso il crocevia.
Brucio sul tempo i motori alla mia destra mentre quelli sulla sinistra li evito abilmente buttandomi quasi sul marciapiede del lato opposto.
Rientro nella mia direttrice di marcia carosellando tra un nugolo di pedoni impauriti, sorpresi, indignati.
Il tutto è così fulmineo che il mio mastino dovrebbe avere le ali per starmi dietro.
Infatti con la coda dell’occhio mi accorgo che non c’è.
Ho poco tempo: lascio la moto e il casco per terra, non troppo in vista, in uno spazio verde, appena lasciata la lunghissima “Holland Road”. Un breve tragitto a piedi, trotterellando: una scalinata in cemento grezzo; un ponte mezzo arrugginito; un’altra scalinata, stavolta in discesa; ancora un breve tratto e sono in una stazione metropolitana.
“Salvo!”- penso con un sorriso interiore di serena soddisfazione.
Il treno si fa attendere un po’. Infilo le mani nelle tasche del mio giubbotto in cerca di una sigaretta e un pensiero mi scuote da capo a piedi: “Cristo Gesù! Il giubbotto!”
Il tizio che mi stava dietro avrà sicuramente notato il mio giubbotto: vi è applicato sul retro lo stemma di una famosa squadra di calcio.
L’ho avuto da un tipo in cambio di un paio di biglietti per una partita di coppa. Come pegno a sentir lui; ma io sapevo che lo diceva per salvare la faccia; e infatti non si è fatto più vedere e il giubbotto sembrava tagliato per le mie misure.
Discretamente mi guardo in giro e me lo sfilo lentamente; lo piego dalla parte interna e lo poso sul braccio, tranquillo. Il treno ancora non arriva e non vi è neanche tanta gente ad attenderlo: segno che doveva essere appena passato quando sono giunto in stazione.
Imprecando alla London Transport passeggio nervosamente, avanti e indietro, lungo la banchina.
Non mi sento al sicuro. C’è come un pericolo che mi aleggia attorno.
- “ Non hai freddo?” – echeggia una voce beffarda alle mie spalle.
E’ lui. Non lo vedo, ma non ho dubbi. Il gelo mi entra sino al midollo delle ossa. Senza voltarmi mi infilo il giubbotto.
- “Tifoso dell’Arsenal, non è vero? Oggi è il tuo giorno sfortunato” – prosegue piazzandomisi di fronte – “ io faccio il tifo per il Liverpool!”
E’ un bestione di più di duecento libbre di peso per uno e novanta verso il cielo.
Un sorriso straffottente è stampato sulla sua faccia grassa dagli occhi piccoli e chiari, ove colgo per un attimo, un lampo di soddisfazione e di ammirazione insieme: dopotutto in moto, gli ho fatto vedere qualcosa. La considerazione, per quel che vale, naturalmente va a suo totale beneficio. Mi ha beccato: è lui il vincitore della corsa.
Sento arrivare finalmente il treno.
“Troppo tardi!”, penso sconsolato. Il gorilla continua ad osservarmi, ormai soltanto beffardamente.
Forse aspetta solo che si aprano le porte per afferrarmi e portarmi dentro. Oppure attende l’arrivo degli altri segugi, che avrà di certo chiamato prima, con la sua dannata radio.
Il treno si arresta con il consueto stridore di freni.
Ma le porte automatiche, stranamente, non si aprono. Dietro i vetri dei finestrini e delle porte, scorgo gli sguardi allucinati ed impazienti dei passeggeri, stipati come sardine, che cercano di riabituarsi alla luce; infastiditi ma desiderosi di ritornare all’aria aperta, dopo una giornata di lavoro dentro a un ufficio zeppo di odore di scartoffie; dopo un viaggio nel buio ventre della terra. Ma le porte, in quei pochi, eterni secondi che seguono all’arresto del treno, sembrano essere state sigillate dagli oscuri demoni degli inferi, forse seccati da quell’ininterrotto andirivieni nelle viscere del loro regno segreto.
Qualcuno, forse più nevrotico degli altri, preso dal panico, aziona l’apertura di emergenza.
Il suono acuto della sirena d’allarme distrae il mio uomo quanto basta. Mi butto in avanti disperatamente. E’ la mia unica ed ultima occasione.
Quasi all’istante, e prima che il bobby abbia il tempo di capire ciò che succede, le porte del treno
si spalancano, e una marea di gente, con grande sollievo, si riversa sulla piattaforma.
Senza volerlo fermano il corso della legge.
Non resto certo a guardare il mio inseguitore che, lo sento imprecare in lontananza, cerca di aprirsi un varco tra quella folla allucinata di metropolitana.
All’uscita il controllore non ha il tempo di chiedermi il biglietto.
Come un proiettile mi catapulto oltre le barriere automatiche d’ingresso.
Percepisco al volo l’eco di qualche parolaccia, rivolta in gergo al mio indirizzo.
“Sbirri infedeli!”- , penso continuando a filare come un matto- “Con tutti i soldi che si prendono dai portoghesi!”
Una volta in strada, salto su un provvidenziale “double deck” che ha appena iniziato la sua corsa.
Il traffico non è molto scorrevole.
Dal predellino vedo un taxi nero destreggiarsi in scioltezza.
La paletta gialla, lievemente fosforescente nel primo imbrunire, indica che è libero.
Riesco ad intendermi con l’autista: è preso! Stavolta niente rischi.
Gli do l’indirizzo di un Teatro distante poche miglia, aggiungendo che ho una fretta del diavolo.
I tassisti londinesi pretendono sempre la mancia a fine corsa, però sanno anche meritarsela.
Sono gli unici autisti su quattro ruote che riescono a farsi agevolmente largo nel traffico, riuscendo ad evitarlo grazie alla loro conoscenza di percorsi alternativi, attraverso vie secondarie e strade riservate.
Sprofondo sul comodo sedile posteriore della possente Austin. Ormai sono al sicuro.
La marcia sicura e rapida del macchinone si arresta proprio davanti ai portoni sbarrati del Teatro.
-“ Eccoci qua!”- mi dice l’autista voltandosi di tre quarti.
Il suo viso non riesce a nascondere un misto di sorpresa, quasi di delusione.
- “Tieni pure il resto”- gli faccio io, dopo essere sceso con un balzo dall’auto.
La lauta mancia gli fa cambiare di colpo l’espressione del viso, illuminandolo con una luce di sincera riconoscenza.
- “ E’ stata una bella corsa! “ – gli grido quando sono già distante, alzando una mano in segno di saluto.
Lo scorgo mentre con la coda dell’occhio, dà un ultimo sguardo perplesso all’atrio deserto del Teatro, per poi allontanarsi lentamente, lasciandosi dietro una lunga scia di fumo nero.
Cammino con le mani in tasca, in cerca di una stazione della Metro. Il freddo pungente, più del buoi, preannuncia l’arrivo della notte.
Mi stringo nel mio giubbotto di pelle.
“Gli devo cambiare lo stemma”- dico a me stesso.
“Forse gliene metto uno del Liverpool Club!”
Anche se in fondo Londra è piena di giubbotti come il mio.