Recensione di Alberto Pezzini
Molti sono convinti che il vezzo di portare l’orologio sopra il polsino della camicia oppure la cravatta direttamente sul pullover siano farina di Gianni Agnelli. Così Un vecchio frac, la canzone in cui l’alba non sa tacer la morte, è stata cantata da Domenico Modugno con in mente la figura precisa di Riccardo Lanza di Trabia, il principe siciliano più dandy, come per una malattia nel sangue. Fu anche, e questo lo dice Marcello Sorgi (siciliano in purezza ed ex direttore de “La Stampa”) ne Il Grande Dandy (Rizzoli, pagg. 209, euro 18,90) l’inventore del calciomercato divenendo Presidente del Palermo e gareggiando con l’amico Gianni Agnelli nell’accaparrarsi i giocatori migliori. Siccome il calciomercato all’epoca – siamo negli anni ’50, in piena ripresa economica – non esisteva, e la televisione non faceva ancora esplodere le notizie come oggi, Lanza capì che doveva occuparsi degli scambi nel luogo dove il denaro diveniva trasparente, merce sotto gli occhi di tutti:la Borsa di Milano. Si installò al Gallia, albergo che gli sarà eterno debitore, ed inaugurò una stagione in cui accanto al telefono rovente stava sempre una bottiglia di champagne sotto ghiaccio e qualche cronista della Rosea da informare sull’ultimo acquisto di bipedi con ali ai piedi.
Raimondo Lanza di Trabia, nato da un’unione quasi illegittima tra un Lanza ed una donna già maritata ad altro nobiluomo, venne su – dicono – con il cruccio di un secondo cognome e molti sostennero che fu il suo vero tarlo. I Lanza, famiglia di antichissima nobiltà palermitana, ottennero circa quattro milioni di lire grazie al matrimonio con una Florio, e riuscirono a ritardare la loro progressiva decadenza dentro il golfo panciuto di Palermo. Riccardo crebbe prima a Roma, per strada quasi, e poi proprio a Palermo quando i Lanza riuscirono ad ottenere il modo di lasciare tutto ai propri nipoti. Si tuffava nudo alla mattina, dal castello di Trabia, evitando gli scogli più grossi per immergersi in un mare profondo. Cominciò a rincorrere tutte le donne dell’isola che si davano a lui con slanci quasi spontanei perché bello, sfuggente, imprendibile, con una fortuna a nove zeri dietro gli occhi neri. Fu il grande amore giovanile anche di Susanna Agnelli che, in Vestivamo alla marinara, gli dedica quasi centocinquanta pagine. Quando la incontrò le disse subito :”Tutte le donne si innamorano di me, ti prego, non farlo anche tu”. Lei alta, quasi altezzosa, invero timida ed anche più riservata della media, con quell’accento inconfondibile, gli disse di non preoccuparsi, perché non c’era pericolo. Accadde, invece. Quell’amore si mangiò la sua giovinezza, con quel principe amatissimo e sempre scalzo come nelle favole. Lui le preferì un’attricetta – proprio quando il fidanzamento stava entrando nel pieno – e quindi non se ne fece più niente. Restò un’amicizia dorata, tipica di chi si lascia senza volerlo mai veramente, ed un’amicizia solida con Gianni Agnelli, che lo aiuterà poi economicamente.
Venne la guerra in Spagna dove Raimondo fece l’agente segreto, e si trovò in situazioni strane, ricordate anche da quella penna liquida che fu di Giancarlo Fusco, in L’Italia al dente (Sorgi lo ignora. Perché ?). Inseguì i reali, quando partirono all’alba per Brindisi, uscendo da una porta secondaria di Via Napoli. Il 9 di settembre del 1943, su ordine del Generale Carboni, riuscì ad intercettare, ferma ad un passaggio a livello, l’auto con le insegne reali, guidoncini azzurri (colore dei Savoia) e cinque stelle d’oro, insegne del Primo Maresciallo dell’Impero. Si avvicinò al Re e gli sparò a bruciapelo: ”Sono Raimondo Lanza, ufficiale di ordinanza del generale Carboni. Il generale aspetta ordini. Mi ha mandato a chiedere ordini:cosa deve fare ?”. Il Re lo guardò e – lì restò – mutacico. Badoglio, invece: ”Gli dica di fare quello che può, che si arrangi”.
La vita continuò. Riccardo patì la morte della nonna, la principessa Giulia, colei che gli aveva lasciato un miliardo circa in eredità, una fortuna che polverizzò in brevissimo tempo. Restarono i suoi scherzi, pungenti come il fumo, tanto da doversi rinchiudere due settimane nel proprio castello con un maestro di scherma per fronteggiare in un duello al primo sangue il Barone Arcangelo Alù, al quale aveva fatto svaporare con un trucco la presidenza del Palermo. Vinse quel duello, ma di lì la vita terminò di essere dolce come le zagare. Le corse con le auto per la Targa Florio, il matrimonio con l’attrice Olga Villi, una bruna con gambe lunghe fino alla luna ed uno sguardo che non si capacitava di un uomo così, amante notturno e cacciatore di tigri di giorno in India, e poi l’alcool. Una vita sempre di corsa, quasi in fuga da sé stesso, tarantolato. Morirà suicidandosi a Roma, da una clinica, tuffandosi dal terrazzo e colpendo l’asfalto con la sua figura, abituato com’era a lanciarsi nel vuoto ma stavolta non trovando più le grand bleu. Unico spettatore di quella vita inimitabile, un benzinaio. Il petrolio in Sicilia era stata la sua ossessione durante gli ultimi tempi.