Il dandy, per sua funzione, è un oppositore.
Albert Camus
I Dandy: mai epiteto ebbe origini più indefinite e lignaggio più incerto. In qualche caso, certa paraetimologia lo farebbe derivare dall’italiano daino, in inglese buck, indicante l’aggraziato animale e, insieme, il maschio umano elegante. Diffuso in Scozia nel XVIII sec., assonanzato sia col diminutivo di Andrew, sia con la canzone militare inglese Yankee doodle dandy che vorrebbe ridicolizzare lo sgargiante abbigliamento dei ribelli durante la Rivoluzione americana del 1770, il termine ha la sua maggior diffusione presso la società londinese nel secondo decennio dell’Ottocento (George Gordon Byron lo cita in una lettera a Moore, datata 15 luglio 1813).
Puro simbolo alquanto sfruttato dall’odierna fast fashion commerciale, opulenta e griffata, dopotutto esso resta un tardo frutto di quell’Illuminismo che prepara la rivolta romantica: laddove – scrive Camus – “il romanticismo dimostra […] come la rivolta sia strettamente connessa al dandismo” (L’uomo in rivolta, 1951). Ne è un esempio calzante quel Byron oppositore del perbenismo dell’aristocrazia inglese e tra i cospiratori d’una insurrezione antiturca in Tracia.
È, quello indicato da Camus, un sentimento di rivolta in cui la ragione, giunta all’acme della sua raffinatezza, vorrebbe, per la prima volta nella storia umana, segnando il passaggio fra l’aristocrazia decaduta e la democrazia nascente, rivendicare le proprie laiche regole basate sul valore dell’individualità liberata contro la massificazione coatta. Non in questa pianificatrice d’ogni differenza, bensì in se stesso, il dandy specchia il proprio essere: il dandismo, insomma, è un’”autointerpretazione”.
Nasce il 2 novembre 1808 a Saint-Sauveur-le-Vicomte in Normandia Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly, scrittore francese e dandy un po’ narciso e un po’ moqueur (burlone). Conosciuto soprattutto per la sulfurea raccolta di racconti Les Diaboliques (1874), tra le ‘bibbie’ del decadentismo, è oggi pressoché obliato come altri ‘minori’ francesi a lui più empatici pur se meno fashionables (Nodier, Sue, Gautier, Nerval, Borel, Péladan, Baudelaire…). Svolti i primi studi a Valognes dal 1818 al 1825, nel 1827 è studente a Parigi presso il collegio Stanislas. Conseguita la licenza liceale nel 1829, si trasferisce a Caen per iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e, nel 1830, pubblica il racconto lungo Le Cachet d’onix. A Caen diviene amico del libraio ed editore Trébutien, col quale condivide le idee liberali e fonda il periodico “La Revue de Caen”. Qui, nel 1832, pubblica il racconto Léa.
Dopo la laurea, trasferitosi a Parigi nel 1833 (dove muore il 23 aprile 1889, lo stesso anno dell’antipositivista e a lui affine Villiers de l’Isle-Adam) intraprende la carriera giornalistica, tuttavia restando in una condizione di marginalità.
Nel 1834, fonda con altri “La Revue critique de la philosophie, des sciences et de la littérature”. La lettura, verso il 1838, delle opere di Joseph de Maistre, ostile alla Rivoluzione del 1789 e propagandista cattolico, lo spingono all’abbandono delle giovanili idee rivoluzionarie e a professare un’intransigente seppure non conformistico misticismo, interpretato nella stessa epoca in Francia anche dalla poetessa Marceline Desbordes-Valmore, apprezzata da Saint-Beuve e Baudelaire, e da epigoni non distanti quali E. Hello, L. Bloy, P. Bourget, M. Barrès.
Il grande dandy - Il dandismo e George Brummel di J.-A. Barbey D’Aurevilly. A cura di Stefano Lanuzza
Collana Fiabesca
112 pagine
ISBN: 978-88-6222-136-8