Dopo aver dato avvio ad una serie di raid aerei in Yemen per frenare l’avanzata dei ribelli Houthi, i Paesi arabi, nel vertice di Sharm el Sheik e su iniziativa del presidente egiziano Al Sisi, hanno deciso di creare un esercito congiunto da impiegare nelle future crisi regionali. C’è chi parla di una sorta di “Alleanza Atlantica” in salsa mediorientale; di sicuro c’è che l’armata panaraba marcerà sotto vessillo ideologico-religioso del sunnismo. Non a caso la decisione nasce proprio con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei ribelli sciiti Houthi, vista come un “complotto” iraniano per espandere l’influenza sciita nel mondo arabo.
La presenza di forti interessi stranieri ha spinto la gran parte della stampa internazionale ad interpretare gli eventi in corso come una guerra per procura tra sauditi e iraniani, riflesso del più ampio confronto-scontro tra sunniti e sciiti. Ma si tratta di una chiave di lettura solo parziale. L’attuale conflitto yemenita non può essere ridotto alla componente delle tensioni interconfessionali – che pure è quella più vistosa: ne sono un esempio le recenti stragi avvenute in due moschee sciite della capitale.
In realtà lo scontro interconfessionale si sta consumando in forma indiretta e su un piano più elevato. In Medio Oriente i sunniti sono la maggioranza, ma l’equilibrio di forze sembra pendere sempre di più in favore degli sciiti. Da una parte perché c’è un governo sciita a Baghdad e un altro a Damasco, mentre a Beirut l’organizzazione politica e paramilitare sciita Hezbollah rappresenta una sorta di Stato nello Stato. Dall’altro perché – ed è questa la novità più rilevante – l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah si prepara a cogliere un riconoscimento internazionale
Recentemente il segretario di Stato Usa John Kerry ha aperto al negoziato con Bashar Assad in Siria, divenuto ormai un indispensabile “alleato” nella lotta contro lo Stato Islamico. I cristiani siriani e libanesi sono a stragrande maggioranza con il presidente siriano e sono alleati con Hezbollah, che ha di fatto impedito l’avanzata del Califfato in Libano. In Iraq la lotta al gruppo di al-Baghdadi è appannaggio delle truppe curde, al fianco dei Pasdaran iraniani nella battaglia di Tikrit, proprio mentre la trattativa sul nucleare con l’Iran è prossima alle battute finali. In caso di firma dell’accordo sul nucleare, Teheran vedrebbe rilanciata la propria economia grazie alla revoca delle sanzioni internazionali nei suoi confronti, proprio mentre quella dei vicini arabi soffre a causa dei corsi del petrolio in calo. Tutto questo mentre i rapporti tra Washington e i suoi tradizionali alleati mediorientali (come la Turchia) attraversano una fase di stallo.
In sintesi, gli Stati Uniti, pur mantenendo sempre rapporti privilegiati con Israele e Arabia Saudita, per stabilizzare il Medio Oriente scomettono sull’Iran e i suoi alleati e sono dunque sul punto di compiere una virata diplomatica nel mondo musulmano verso l’asse sciita. Questo passaggio non è senza conseguenze. In primo luogo perché la Casa Bianca si trova invischiata in un’insanabile contraddizione: se da una parte appoggia l’operazione militare a guida saudita, dall’altra si trova nell’imbarazzo di sostenere l’Iran nella battaglia di Tikrit e allo stesso tempo di fronteggiarlo in quella di Sanaa.
In secondo luogo perché i Paesi sunniti stanno già studiando delle contromosse. La NATO panaraba proposta dall’Egitto ha tutta l’aria di un monito rivolto agli USA in vista dell’ormai prossima svolta sciita. Inoltre, la Russia si è offerta come sostituta degli Stati Uniti nei rapporti commerciali e militari con il mondo arabo. La recente visita al Cairo del presidente Putin, in un momento di forti tensioni tra la Russia e l’Occidente per la questione ucraina, ma al contempo con i due contendenti impegnati in prima linea nella lotta allo Stato Islamico, è stata il primo passo verso questa direzione.
Ciò che sta accadendo in Yemen è solo la classica punta dell’iceberg: in gioco c’è la ridefinizione dei rapporti di forza nel Medio Oriente che cambia.
Un’ultima osservazione. Tra gli attori della crisi yemenita c’è sempre Al Qaeda, qui presente tramite la sua “filiale” AQAP. Finora non sembra stia svolgendo un ruolo particolare nella gestione della crisi, ma potrebbe rientrarvi prepotentemente in una seconda fase. Non soltanto perché i jihadisti sarebbero i primi a trarre vantaggio dal rinfocolare del conflitto settario. Se l’operazione “Tempesta decisiva” dovesse respingere l’offensiva degli Houthi nel centro e nel sud dello Yemen, si creerebbe un vuoto di potere che non sarà riempito da Abd Rabbo Mansur Hadi, quel presidente “legittimo”che la coalizione guidata dai sauditi sostiene di voler riportare al potere.
Al Qaeda non può certo vantare le disponibilità finanziarie e militari dello Stato Islamico, ormai divenuto il principale referente nel panorama del jihad globale, ma a differenza delle milizie di Al Baghdadi vanta un forte radicamento sul territorio. Attualmente i qaedisti stanno aspettando appena fuori di Sanaa, in attesa che i raid aerei liberino loro il terreno dalla presenza Houthi. L’unica forza che potrebbe opporsi ai jihadisti sono le fazioni politico-militari che fanno capo all’ex presidente Saleh, che però è al momento alleato degli Houthi (dopo averli duramente combattuti per anni) in funzione anti governativa ed è di fede sciita, dunque non proprio gradito alla coalizione sunnita.
La storia recente ci insegna che gli interventi militari hanno spesso conseguenze indesiderate e anche “Tempesta decisiva” potrebbe effetti spiacevoli sia per i Paesi sunniti che per l’Occidente. Tra i tanti litiganti, c’è il rischio che alla fine sia il jihadismo a godere.
* Scritto per The Fielder