Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges), detto “Il Drugo”, conduce un’esistenza priva di ogni impegno al di là del bowling, passatempo che condivide con gli amici Walter (John Goodman) e Donny (Steve Buscemi). Non lavora e trascorre le sue giornate tra un po’ di marijuana e fiumi di white russian. Insomma, si gode la vita. Un giorno però due tizi gli fanno visita credendolo l’omonimo Lebowski, miliardario in sedia a rotelle. L’equivoco si risolve, ma non prima che gli abbiano pisciato sul tappeto. Si presenta quindi dal magnate con l’obiettivo di essere risarcito, finendo coinvolto in una storia più grossa di lui.
Voce fuori campo, la macchina si alza sulle luci notturne di Los Angeles, un cespuglio rotolante. Ed ecco il Drugo (meglio l’originale “The Dude”) al supermarket, con la sua vestaglia e in ciabatte, a pagare un cartone di latte con un assegno. C’è anche un breve passaggio di George Bush senior in tv: sono i primi anni 90, quelli dell’occupazione americana del Kuwait. C’è un eroe in queste prime immagini (ovviamente non si tratta di Bush…), o almeno così viene descritto nella breve presentazione dalle parole della voce narrante (il cowboy Sam Elliott, che più avanti sarà anche uno dei personaggi in carne e ossa). Un pigro patentato che rivorrà indietro soltanto il suo tappeto perché, come dice lui, “dava un tono all’ambiente”, ma pur sempre un eroe. Non a caso, ogni anno in diverse città degli Stati Uniti si tengono raduni dei fan, si organizzano visioni collettive del film, ci si veste come Lebowski (ispirato alla figura di Jeff Dowd, un produttore amico dei Coen che veramente era tra i fondatori del movimento di protesta “Seattle Seven”). Lunghi carrelli e riprese all’altezza degli stinchi erano già un marchio di fabbrica dei Coen prima del 1998, ma qui ci sono ralenti indimenticabili e alcune trovate che rimangono nel tempo (le scene dei sogni, la ripresa roteante dal punto di vista della palla da bowling). Commedia cult il cui intreccio complesso è in parte ispirato a Il grande sonno di Raymond Chandler. Dialoghi che brillano dall’inizio alla fine e battute fulminanti come «Attento perché il messaggio subliminale è fottiti, lasciami in pace e vaffanculo!”» . E personaggi che costituiscono un perfetto campionario del grottesco: Walter che infila il suo passato di reduce di guerra dappertutto («Questo non è il Vietnam, è il bowling: ci sono delle regole»), Donny che confonde Lenin con Lennon, i Nichilisti a cui non importa di niente (tra cui anche Flea, il bassista dei Red Hot Chili Peppers), il latino-americano Jesus (John Turturro) che è un campione in tutina viola ma ha qualche perversione di troppo, il boss del porno Jackie Treehorn (Ben Gazzara), il prepotente magnate in carrozzina (David Huddleston) e il suo assistente lecchino Brandt (Philip Seymour Hoffman), e infine Maude Lebowski (Julianne Moore e il suo caschetto rosso), figlia del miliardario e artista dall’accento bizzarro. Divertente il siparietto tra il poliziotto e il Drugo in occasione del ritrovamento della macchina, inquietante quello al bar in cui Goodman sostiene di poter trovare facilmente un dito mozzato. In un film così, anche la colonna sonora non poteva non essere curata nel dettaglio: dai Creedence Clearwater Revival (gruppo preferito del Drugo) agli Eagles (che invece odia), da Bob Dylan (The man in me si sente in un paio delle sequenze migliori) a Kenny Rogers, da Townes Van Zandt a Captain Beefheart. Forse il manifesto del cinema dei Coen.