Questo è un argomento che mi pare di avere già affrontato di recente, quando ho scritto a proposito della libertà di chi scrive; ma tornarci su mi sembra comunque una buona idea. In fondo, si impara sempre qualcosa, non è vero? O meglio: la speranza di imparare è sempre solida, e a quel punto, condividi quel poco che sai con chi legge queste righe.
In base alla mia esperienza (per quello che può valere), quando si comincia a scrivere, lo si fa mossi dall’idea che ci sono delle idee (le proprie) da dimostrare e che ovviamente sono quelle giuste. Quindi? Quindi carta e penna (o computer) e si mette tutto nero su bianco.
Io per anni, troppi, ho scritto con questo in testa. E se tu ritieni che non sia affatto sbagliato, perché in fondo non è possibile essere “obiettivi”: ti rispondo dicendo che la faccenda non è poi così semplice.
Prima di tutto, le persone
Il passaggio epocale che occorre compiere, è puntare lo sguardo sulle persone, non sulle idee. Il rischio, altrimenti, è quello di “scarsa o nulla empatia”; una definizione che ho imparato a conoscere, perché l’agenzia letteraria alla quale anni fa mi rivolgevo, scriveva proprio così.
Qualcuno, tanto per cambiare, dirà che non è un problema poiché le librerie sono piene di libri concepiti e scritti in questo modo. E che significa? Che esistono libri concepiti e scritti in questo modo. Fine.
Potrei chiudere la faccenda ripetendo che io quando comincio a scrivere una storia non so dove andrò a finire. Il che è vero, ma sarebbe una scorciatoia. E così mi viene in aiuto un’altra immagine che uso per spiegare la genesi di una storia: è come riportare alla luce un fossile. Certo, se incappi in un femore di un paio di metri di lunghezza hai qualche vaga idea di che cosa hai scoperto, ma poi?
Lo stesso con la storia: ti capita un’immagine. Certo, tu hai le tue idee, ma tanto per cambiare quell’immagine è distante da te un milione di chilometri. Non puoi fare affidamento su di te, non sei tu a condurre il gioco: un po’ come un marinaio che naviga in un oceano. Le stelle gli offrono una direzione ma…
La destinazione non è garantita
Come se la conoscenza della direzione fosse garanzia di qualcosa. Sapere che il nord è da quella parte, e il sud dall’altra, non evita certo di naufragare o colare a picco. O di capitare su un’isola deserta. Ma pochi sanno affrontare la scrittura come se fosse un agguato.
Certe scritture infatti sono concepite proprio per dimostrare che il nord è di là, e che allora non sei soggetto ad alcun rovescio. E il lettore apprezza eccome!
Una delle ragioni che mi spingono a ritenere “Resurrezione” di Tolstoj un grande romanzo, ma non un romanzo riuscito, è che lo scrittore russo aveva compreso tutto. E allora scrive quella storia per dimostrare. (Che poi non sia stato coerente, è un altro paio di maniche, che aiuta a capire quanto fosse difficile pure per lui, vivere come si deve. Mise incinta una contadina, e non ne riconobbe mai il figlio).
Dostoevskij viceversa, appare più complesso, più tormentato. Benché fosse un forte credente, il dubbio lo visitava sempre. Tolstoj aveva trovato le risposte, o almeno, dopo tanto interrogarsi, credeva di averle trovate; ma la fuga da casa, non dimostra forse che la sua era un’illusione? E la sua morte in una piccola stazione ferroviaria è l’ultimo capitolo della sua opera; il più riuscito. Se Dostoevskji giganteggia per le sue opere, Tolstoj giganteggia per le sue opere, e la sua esistenza.
La destinazione non è garantita. E al primo posto non le mie idee, ma la carne e la ciccia. Le persone.