Magazine Cinema
Per film come questi io vado in visibilio, lo dico subito. E' il Cinema d'impegno e intrattenimento (drammatico) per eccellenza, pregno di significati, ben girato, attori da sogno, semplice e diretto, ti fa fare anche qualche pur amarissima risata. Grandi ovviamente i meriti del romanzo omonimo di Lucio Mastronardi. Visto oggi poi si aggiunge ai meriti anche l'interesse storico, per la società e lo stile di vita di allora. Olimpo ovviamente, e mi divertirò a farne un foto-racconto, entro i limiti imposti dall'evitare spoiler.
Intanto passo un attimo la parola all'amica Petrolio (al secolo Milena), grande estimatrice come me di Elio Petri, alla quale ho chiesto un contributo a riguardo.
Il ricordo della lettura del libro è troppo vivo quando scelgo di vedere questo film nel 1995 e rimangono fortemente radicate in me l'amarezza e la sottile ma incisiva vena di sconforto quando lo rivedo oggi. Ho sempre scelto di posticipare la visione rispetto alla lettura. Il motivo è da ricercare nella grande e fondamentale passione che mi cuce a doppio filo ai libri. È assai potente la forza della immaginazione che scaturisce dalle pagine e dalle parole e l'immagine che ne prende forma è viva e reale: il tono di voce, l'espressione del viso, le movenze del corpo, i luoghi, gli oggetti, la gente, gli sguardi, i mormorii. È perciò grande, spesso, la delusione che segue il momento in cui assisto alla rappresentazione visiva della vicenda scritta. In questo specifico caso è velatamente legata alla esperienza da lettrice, come un errore facilmente eludibile grazie all'ammirazione nutrita nei confronti di Petri e Sordi: l'origine romana del protagonista nel film, quando quella originale nel libro era lombarda. Nulla toglie alla bravura del regista che io amo follemente, nulla sottrae alla carriera magnifica dell'attore del quale m'affascina la mobilità e l'intelligenza dello sguardo, la metamorfosi a cui sottopone tutto il viso. Intatta e degna di nota l'immagine grottesca e caricaturale, una grande linea rossa segnata con pugno duro sotto quello che era il mondo piccolo borghese dell'Italia del dopo guerra nel quale ancor più risaltano i tratti dei vincitori e attenuati, fino a scomparire, sono la mitezza, la caparbietà e la sofferenza dei vinti. La scuola, l'ambiente in cui si svolge la vicenda, che avrebbe dovuto esercitare il ruolo (suo proprio) di educatrice, preparatrice e far da trampolino perché spiccassero il volo le coraggiose intenzioni e si concretizzassero gli slanci, è invece la fucina della mediocrità, è fonte di umiliazione e oppressione. Mombelli, avvilito, passivo, non è artefice del proprio destino, sprofonda nella gretta realtà in cui è immerso… quanto amaro è questo ritratto? Troppo, così opprimente da schiacciare e sopprimere qualsiasi emozione, persino il lato comico, troppo esasperato a volte; tutto è vacuo, devitalizzato, distaccato, la vicenda, così come l'avventura di cambiamento, di intraprendenza, di successo vissuta da Mombelli, l'insegnante che diventa industriale per poi miseramente fallire, inizia e finisce. La voglia di riscatto, appena spiccato, compie un volo breve e il tonfo non si sente, come quello del martello pesante che scaglia sul ponticello di legno alla vista della moglie in dolce compagnia. Tradito, sbeffeggiato, fedele. Si rimane vuoti, ma illesi. E allora? Forse l'avrei resa più amara, io. Cosa, altrimenti, pretendere da una nera scrittrice di nero?
Contributo strepitoso al solito. Grazie di cuore a Milena.
Il mio parere, come avete letto e leggerete, è decisamente più entusiasta del suo, ma va detto che non ho letto il libro, fattore importantissimo.
Vigevano è una località in provincia di Pavia, meta obbligatoria anche per i milanesi per qualche gita in primavera. La piazza inquadrata qui dall'alto, anche se non grandissima, è considerata tra le più belle d'Italia e, fidatevi, la fama è meritata. E' un contesto classico di "provincia lombarda" dei tempi, credente ma non troppo bigotta, operosa... Vigevano è nota ancora oggi come "città delle scarpe", rinomata per qualità e quantità di produzione del particolare capo d'abbigliamento. Ai tempi era piena di "fabbrichette".
Simpaticissimo inizio che inquadra dal basso pedoni in piazza. Questo è il nostro protagonista, Antonio Mombelli, che ci racconta la storia. "...ognuno qui a vigevano porta le scarpe che può, che deve e che merita...", parte del suo incipit, frase che vuol già dire molto, perché se il Può è scontato, quel Deve e quel Merita sono segno di una società che esige che ognuno stia al suo posto, con ruoli e gerarchie definite. Non siamo alle caste però, le gerarchie non sono inviolabili.
La faccia di Alberto Sordi nei panni del maestro è indimenticabile. Una parte che è di grande drammaticità, eppure a vederlo, in molti momenti, seppure amaramente non si può fare a meno di ridere. Ruoli che quando ricoperti da attori così diventano un marchio, nessuno potrà mai Osare confrontarsi con l'albertone su questa parte. "...maestro elementare di gruppo b, quarto scatto, coefficiente 271, 19 anni di servizio... mancavano 6 mesi e 1 giorno alla pensione. in fondo i maestri sono come i bambini, basta un nulla per farli felici."
Ada Badalassi in Mombelli (Claire Bloom), la moglie di Antonio, si mostra a lui con mutande riciclate dal marito, ché lei non ha i soldi per comprarsene di nuove e femminili. Ada soffre tantissimo la povertà, non ne può più, vuole andare a lavorare, far lavorare il figlio. "Quando ti avevo sposato un maestro sembrava chissà che, oggi guadagni meno di un operaio!", così più o meno gli dice.
Il solo "spettacolo" che si possono permettere. Uscire e andare al bar a guardare la televisione. Lo facevano in tanti. A molti non pesava, era un modo per stare in compagnia dopotutto, ma Ada non è tra quelli... Parlo da uomo fatto e quasi ormai finito: Ada è un personaggio odioso. Difficile immaginare per un uomo, certo umile ma dignitoso come Antonio, una moglie peggiore. E' incredibilmente frustrante sapere che la propria moglie non è soddisfatta di quello che gli si può offrire, di avere coscienza di non poter fare di più e, benzina sul fuoco, sentirselo sempre dire, fatto pesare.
L'insopportabile, spocchioso, autoritario tam quam ignorante direttore della scuola. Qui fa fare ad Antonio una sceneggiata con un improbabile cannocchiale, come se lui fosse di vedetta sulla caravella di Colombo ad avvistare "Terra! Terra!", umiliandolo davanti persino i suoi alunni. Peccato che Galileo Galilei sia nato nel 1564... Il cancro italiano (non solo nostro, ma eccelliamo) per cui in certe posizioni si arriva per calcinculo più che per meriti ha radici antiche e il film, giustamente, non manca di evidenziarlo, nei suoi nefasti effetti. Mancano ancora molti anni allo statuto dei lavoratori e Antonio non ha molte alternative, rischia il posto, quindi soccombe, obtorto collo, e solo nei sogni potrà immaginare di espettorare in faccia a quell'essere quello che pensa.
La moglie prende le prime indicazioni su come lavorare, e lui è lì mortificato, umiliato, impotente, alla finestra. Qua l'immagine parla...
Altra immagine parlante... primi tentativi di cucinare in assenza di Ada. Potrebbe far ridere e molto questa scena, invece no.
Mensa aziendale? Se se... panino da casa e pedalare! nel migliore dei casi la "schiscetta". E quanto dura la pausa pranzo? poco, molto poco. Il ciglio della strada diventa buono come posto per riposare e nutrirsi, giusto perché è primavera.
Antonio, che marito premuroso... gli porta da mangiare, poi nota un orologio. Se l'è preso lei, nessuno potrà mai credere che lui è stato in grado di fare un regalo simile alla moglie, e torniamo al discorso delle scarpe, quelle che uno Può, o Deve, o Merita.
Qua siamo in una situazione drammatica che però fa schiantare dal ridere. Antonio col collega Nanini, precario e supplente a vita che mai ha superato l'esame di abilitazione, suo amico, cercano di risolvere un contorto problema di matematica.
Passo, evito spoiler. Scena breve e significativa che dovevo ricordare, una mazzata!
C'è poco da fare: se uno non è abituato fin da piccolo alla manualità, poi imparare in età avanzata è quasi impossibile. Momento esilarante... Antonio ha dato le dimissioni a scuola, spinto da Ada e dal fratello di lei, per poter comprare con la liquidazione l'occorrente ad impiantare una fabbrichetta in casa.
Il lavoro non manca e la domenica a messa, al Duomo di Sant'Ambrogio, in piazza, la famiglia Mombelli è tirata di gran lusso! Tutti se ne avvedono. Lui vorrebbe dar meno nell'occhio ma lei no, anzi!
L'ingenuità di Antonio... va a raccontare i trucchetti attuati da moglie e cognato per evadere le tasse proprio ad uno che si guadagna degli extra facendo le soffiate alla tributaria! Disastro totale.
"Ma la mamma dov'è che va che torna sempre tardi tutte le sere?" chiede il pargolo al padre che si è rimesso a studiare per riottenere il posto da maestro. Bella domanda!
La moglie lavora ancora in una fabbrichetta, col fratello. Sono dei cottimisti per le fabbriche più grandi in realtà, comunque si guadagna bene. Notare il cognome cancellato dall'insegna.
Terribile dover negare persino le umiliazioni che vorrebbero riparazione di reputazione, umiliato per essere stato umiliato. E il film si ferma anche prima del romanzo, che invece prosegue con ancora meno pietà verso il povero Antonio! Un finale, per un film dell'epoca, forse troppo duro da proporre, e soprattutto da far passare con censura e produttori.
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