Gli animalisti offrono scorci molto interessanti sugli errori filosofici più comuni. Questo post evidenzierà come tali errori non siano loro esclusivi, ma senz’altro son loro a offrirci lo spunto di riflessione.
Essi infatti giustificano spesso, anzi, diciamo SEMPRE, la propria etica sul principio del “male minore”, che possiamo riassumere come segue: sì, ok, noi facciamo del “male” anche se non vorremmo, c’è del “male” in natura (metto le virgolette perché già male è un termine che include determinate valutazioni di valore che non sono realmente incluse nel concetto a cui ci si riferisce, che è più analogo a “sofferenza” e “spiacevolezza”), non possiamo evitarlo. Tuttavia dobbiamo eticamente muoverci nella direzione di diminuirlo. Questa è la giustizia, cercare il “male minore”.
Si tratta di una formulazione assolutamente universale. Fate notare ad un vegano che per quanto si sforzi non potrà mai ridurre a zero il danno che fa agli animali, e ti dirà “ma almeno lo diminuisco il più possibile!”
La politica del male minore è la chiave di volta di tutte le etiche animaliste. E non solo delle loro… guardare il dito quando gli si indica la luna non è una caratteristica che faccia parte solo del loro mondo.
Ma qual è il male minore? Il male minore in assoluto è l’assenza del male. Un obbiettivo che può essere conseguito solo con l’estinzione dell’esistente. C’è qualcuno che accetta effettivamente questa visione, e malgrado non si salvi affatto da insensatezze, ha maggiore coerenza.
Il problema più serio sorge con tutti gli altri, che si trovano di fronte allo strano principio per cui a loro dire “meno dolore c’è meglio è”, ma questo vale solo fino a un certo punto. E dunque non è vero che meno dolore c’è meglio è, ma quanto piuttosto che esiste un giusto mezzo, e che quello stesso fatto esistenziale che essi chiamano “male” in realtà non è il male, il Satana, ciò che va eliminato per definizione tramite l’intervento messianico, ma bensì un elemento come gli altri nella ricetta della vita.
E qui sorge l’autentica problematicità; è facile dire “poco sale” o “sale q.b.”, ma dire effettivamente quanto sale ci voglia spalanca un intero universo di possibilità che con la tecnica retorica del “male minore” si era semplicisticamente cacciato fuori con sdegno.
Qual è il giusto mezzo? Potrebbe benissimo essere che ci stiamo già dentro al giusto mezzo, perché non sta scritto da nessuna parte nemmeno che questo misterioso elemento della ricetta debba essere per forza “poco”. Magari la ricetta è tutta basata su quell’ingrediente, magari è la ccomponente più fondamentale ed irrinunciabile, magari sono tutti gli altri ingredienti le aggiunte, gli optional per insaporire un po’. Magari l’esistenza è basata maggiormente su ciò che loro chiamano “male” che su ciò che loro chiamano “bene”.
L’influenza cristiana su questa visione del mondo è particolarmente evidente, per due motivi. Il primo è che il cristianesimo rinunciò nel modo più categorico al manicheismo, si rifiutò di riconoscere il ruolo del male nel mondo. Satana non è una divinità per i cristiani, ma un ribelle, un caduto, una perversione della norma naturale; il male è un fenomeno con un atto di nascita ed uno di morte, non qualcosa di ineluttabilmente inciso nelle leggi dell’universo. Dunque con esso non si cerca compromessi, ma ci si muove nella direzione della sua sconfitta finale secondo la politica del “male minore”. Il secondo motivo è che il cristianesimo pose nel modo più radicale il sentimento come fonte della normatività, e dunque mentre rifiutava di accettare il ruolo del cosiddetto “male” nel mondo, al contempo acuiva il contrasto fra esso e il bene, andando così a costruire quei concetti assolutistici e piuttosto infantili di bene e male che la nostra società abbraccia spesso acriticamente. Notiamo che ad esempio nell’ebraismo le norme divine avevano una diretta utilità sociale, per questo a volte erano anche leggi ai nostri occhi molto crudeli; anche gli inviti alla solidarietà e all’amore reciproco sono fortemente improntati a principi di convivenza pratica; l’attenzione al sentimento è molto relativa, in certi casi è opportuno amare il prossimo, in altri passarlo con la spada non è fuori luogo. E’ col cristianesimo che arriva il comandamento dell’”amatevi gli uni gli altri”, e dunque la norma, “tu devi, perchè siamo in una società con degli obblighi”, e il tu senti/sei, “tu ami perché ci sei disposto nell’animo, perché è il moto intimo del tuo cuore a spingertici”, si sovrappongono. Il sentire diventa sovrapposto automaticamente con l’agire e con l’essere, e i due non sono momenti dialettici separati, ma un magma unico, una notte in cui tutte le vacche sono nere. La società, fonte dei doveri, ha dunque autorità per importi un sentimento, ed è dal sentimento che deve nascere la morale.
E se non nasce in te il medesimo sentire che negli altri, hai voglia a rispettare le leggi, sei comunque un mostro. Sic et simpliciter.
Ecco dunque una classificazione assolutistica di sentimenti “buoni” vs sentimenti “cattivi”, di virtù contro peccati: la compassione è una virtù, la sopraffazione è un peccato; l’altruismo è una virtù, l’egoismo è un peccato; l’amore è una virtù, l’odio è un peccato; la calma è una virtù, la rabbia è un peccato. Ed ecco che i beni ei mali diventano parole magiche da tirar fuori dal cappello (“tu non sei compassionevole!”, “tu sei egoista!”); se sei egoista sei cattivo, immorale, meriti perfino la prigione; se non sei compassionevole idem.
L’esperienza di tutti i giorni è la miglior confutazione di questo manicheismo malriuscito; essa ci dice che molto spesso compatire una persona non aiuta per niente né lei né noi, che a volte bisogna pensare a sé stessi senza farsi mettere i piedi in testa, che se ami qualcosa automaticamente odierai ciò che la minaccia, che calmi va bene ma una bella incazzatura ogni tanto ci vuole.
Eppure questa visione del mondo è così radicata in noi che a volte non ci accorgiamo di starla già abbracciando. Oh, sì, siamo atei, sìsì, niente Dio, noi non crediamo a roba del genere. Ma poi pensiamo che esistano diritti umani naturali ed inalienabili, poi crediamo che esista una morale cui l’umanità deve attenersi, poi crediamo che bene e male non siano relativi alle circostanze, ma possano essere categorizzati in modo assoluto sotto il nome di questo o quel sentimento.
Sappiamo tutti benissimo che l’elenco che ho fatto qui sopra è sacrosanto, ma ciò nonostante la nostra ottica è assolutamente cristiana: sopraffazione, egoismo, odio, rabbia, sono mali, ma sono necessari. Sono quindi i famosi “mali necessari”…
Ma la verità è che non esiste MAI un male necessario, è solo un vecchio tranello linguistico. Se è necessario, allora è un bene. Nella visione cristiana il problema è dover rendere per forza necessario quel male in modo da trasformarlo in bene, il che è parecchio difficile con un Dio onnipotente che può creare la realtà come più gli aggrada.
Ma per noi fieramente atei questo problema non c’è, noi sappiamo che alcuni “mali” sono necessari, e dunque non sono mali, sono beni anch’essi. Rifiutarsi di ammetterlo è fare come quei bambini che non vogliono prendere la medicina perché è amara… sarà anche amara, ma gli salva la vita.
Ma se anche i cosiddetti mali in realtà nella giusta misura danno sapore alla vita, si dovrebbe discutere solo della loro misura, e non parliamo certo di una discussione che possa ridursi a “meno ce n’è meglio è!”. La politica del male minore si rivela un fallimento totale. Si discute dunque della MISURA in cui la sopraffazione (dell’uomo o dell’animale fa poca differenza sotto questo aspetto) è giusta, non del SE sia giusta. Si discuta della MISURA in cui l’uomo possa porre se stesso sopra l’animale o sopra l’altro uomo, non del SE egli possa.
Troppo complicato? Be’, si chiama vita. Disgraziatamente, non la insegnano nelle facoltà di lettere e filosofia.
Ossequi