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Il mantello di Arlecchino. Educare, perché?

Creato il 14 aprile 2010 da Pinomario

Quando si parla, oggi, di crisi dell’educazione, di crisi della scuola e della formazione; quando si parla di “emergenza educativa”, si intende, forse, sottolineare che, oggi, l’educazione è il primo problema o che, oggi, l’educazione è essa stessa un “problema”Forse si intende anche sottolineare la difficoltà, oggi, di essere educatori da parte di adulti, genitori, docenti, chiese, scuole, istituzioni e autorità di ogni genereForse ci si riferisce, anche, da parte di qualcuno, in modo un po’ riduttivo, al problema di trovare o aggiornare tecniche e mezzi educativiPer qualche altro, la crisi è legata ai cambiamenti in atto nel mondo contemporaneo e alla crisi delle antiche istituzioni e autorità sociali.
Credo però che, in tutte queste ipotesi, non si colga la questione vera, la radice del problema, ciò che è evocato anche se, per lo più, in modo solo implicito, attraverso la centralità che sembra assumere oggi la questione educativa!
E allora, mettiamo, un attimo, da parte – perché scontati e non decisivi – alcuni possibili fattori della crisi dell’educazione di cui pure si parla spesso. Come le questioni relative alla perdita di credibilità degli “adulti” e delle autorità tradizionali. O come la “rinuncia”, volontaria, al ruolo educativo, da parte degli “educatori”, per incapacità, per mancanza di consapevolezza o per la tendenza a considerare gli “educandi” più minori, clienti o consumatori  da “allettare”, che persone di cui promuovere la crescita e l’autonomia. O come l’inettitudine e la miopia degli attuali ceti “governativi”.
Andiamo quindi a quella che considero la vera causa della crisi. Ciò che rende difficile comprendere la natura della crisi dell’educazione e individuare un possibile “orizzonte”, in cui collocarsi, per, rettamente e proficuamente, tentare di risolverlo, è l’incapacità o la mancanza di volontà di interpretare serenamente questo nostro tempo globalizzato e interdipendente come il “tempo nostro”, da cui non si fugge; come il nostro “kairos”, la nostra unica possibilità di incrociare il nostro destino di gente di oggi, e quindi il nostro futuro possibile.
Credo che questa condizione, questa incapacità e, conseguentemente, la difficoltà di affrontare la questione educativa in modo tale da inventare il nostro futuro di comunità umana, sia un prodotto di quel sentimento di paura aggressiva, che sembra attanagliare istituzioni e individui, protagonisti e responsabili del compito educativo. Quella paura che spinge a chiudersi, a rinserrare le fila, a fuggire verso quello che si è stato finora! Si tratta della paura dell’altro, la paura di “incrociarel’altro in quanto altro, senza volerlo ridurre a sé; la paura dei possibili effetti, di un’apertura all’altro, sulla propria identità e sulla propria vita, sul proprio destino. È un po’ come la paura di esporsi, di cambiare, di perdere se stessi, che talora prende chi ama, al punto da spingerlo anche a rinunciare a provare emozioni, a “sentire”, ad emozionarsi, ad amare, e, quindi, a vivere, in una parola ad e-sistere!E allora, in tempi in cui si tende – e si è sollecitati - a cancellare l’altro, a custodire e conservare solo le identità consolidate e rassicuranti, contro l’incontro e il fascino dell’ignoto; in tempi in cui sembra trovare giustificazione addirittura il desiderio di “morte dell’altro” (Luigi Zoia, La morte del prossimo, Einaudi), come è possibile sapere di cosa parliamo e cosa è in gioco, quando si parla di educazione?
In realtà, in tutti i momenti della storia umana in cui sono avvenute quelle grandi rivoluzioni “educative”, che hanno costituito altrettante tappe della crescita umana e delle civiltà, ci siamo trovati sempre di fronte a necessari esodi, incroci, meticciato, nomadismo, rivoluzioni antropologiche!Ha detto bene un raffinato interprete della nostra contemporaneità, i cui contributi sono ancora tutti da “esplorare”, parlo di Michel Serres. Secondo Serres, occorre pensare che la parola “pedagogo”, in origine, designava lo schiavo che accompagnava a scuola il fanciullo nobile. Si tratta del bambino che lascia la casa familiare e si “avventura” in una “uscita” dalla propria condizione di sicurezza, verso una “seconda nascita possibile”. Infatti, “ogni apprendimento esige questo viaggio con l’altro e verso l’alterità. Durante questo viaggio molte cose cambiano”.Ecco la vera “e-ducazione”. Ed ecco perché non si è capaci oggi di porre la vera questione educativa! “Partire. Uscire. Lasciarsi un bel giorno, sedurre. Divenire plurali, sfidare l’esterno, “sviare” per l’altrove. […] Perché non c’è apprendimento senza esposizione, spesso pericolosa, all’altro. Non saprò mai più chi sono, dove sono, donde vengo, dove vado, per dove passare” ! ( Michel Serres, Il mantello di Arlecchino, Marsilio)
Non è stata sempre questa – nonostante il nostro rassicurante oblio - la vera, emozionante storia degli umani su questo nostro piccolo pianeta?


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