In una delle sue folgoranti interviste televisive (scovata sull’onnipotente, ahimé imprescindibile Youtube), Pier Paolo Pasolini rispondeva alla domanda “Che senso attribuisce ancora alla funzione dello scrittore?” con queste testuali parole:
«Mah.. senso.. nessuno. Mi sembra una cosa completamente priva di senso. Io continuo ad esser scrittore per forza di inerzia, per abitudine. Ho cominciato a scrivere poesie a sette anni e mezzo, e non mi son chiesto perché lo facessi. Ho continuato a scrivere per tutta l’infanzia e tutta l’adolescenza ed eccomi qui a scrivere ancora. Quindi l’unico senso possibile è un senso esistenzialistico, cioè l’abitudine a esprimersi, come c’è l’abitudine di mangiare o di dormire.»
E a me sembra che, più si passeggia in mezzo alle tonnellate di novità da una botta e via che ogni settimana arrivano in libreria, più si frequentano gli uffici degli editor responsabili di collana, più non si può far altro che dar ragione a Pasolini, e rendersi conto che il vero senso dello scrivere è completamente staccato da quello di essere poi letti o, ancora peggio, commercializzati.
Questa settimana ha fatto scalpore e suscitato indignazione il “Festival dell’Inedito” una manfestazione “letteraria” in cui ai tre quarti di italiani che hanno un romanzo nel cassetto veniva offerta la possibilità di leggere in pubblico e davanti a una giuria di esperti il loro capolavoro, previo pagamento di una quota di iscrizione di centotrentaeuro più IVA.
Autori, editori e enti pubblici hanno ritirato la loro adesione al progetto come se, di punto in bianco, avessero scoperto che non si trattava di una nobile operazione culturale ma di mero meretricio. E fa strano pensare che a dissociarsi dal progetto siano state le stesse case editrici (Rizzoli, Mondadori) che poi rifiutano gli inediti perché “non hanno un mercato”.
Personalmente ritengo non ci sia niente di strano, né di poco etico, a chiedere dei soldi a chi vuole mettere in mostra la propria presunta arte. Al contrario, mi sembra piuttosto naturale che, in una nazione in cui tutti si sentono meritevoli di emergere grazie al loro talent, qualcuno provi a trarre profitto da una mania collettiva che, tolto il denaro che essa può fruttare, non ha nient’altro di interessante.
Dovrebbero essere gli autori inediti, casomai, a rifiutarsi di pagare pur di avere qualcuno che li ascolti. Poi se un cliente ama credere che la prostituta goda davvero durante la prestazione sessuale, quella che finge non è certo lei, e quindi il dito non va mai puntato contro chi vende un bene inutile e mendace quanto, casomai, contro chi lo compra e costituisce il vero motore dell’inganno.
Tornando a Pasolini, quando la scrittura pretende di avere un senso, e magari anche un valore pubblicamente riconosciuto, allora è inevitabile che, considerati i parametri fondanti della società contemporanea, abbia anche un prezzo, per chi vuole usufruirne e – perché no? – per chi vuole esserne protagonista dal palcoscenico.
L’essere riconosciuti come “bravi” non centra nulla con la scrittura, ha solo a che fare con il bisogno di sentirsi vivi e partecipanti. Però che male c’è se, a tale fine, si è disposti a versare un contributo economico? Si può acquistare tutto, di questi tempi in cui il tendere alla prostituzione non è certo un inedito; ogni tipo di esperienza è disponibile in mercato. Non vedo perché non si dovrebbe vendere anche uno spazio in cui uno – povero lui! – possa comprarsi l’illusione di avere davvero qualcosa di interessante da dire.