In uno dei suoi non rari slanci di cinica sintesi, Francesco Cossiga definì la Costituzione italiana come una piccola Conferenza di Jalta (o Yalta).
La Conferenza di Jalta (o Yalta) fu un vertice tenuto nel febbraio del 1945 a pochi mesi dal termine della seconda guerra mondiale, nell’omonima città sovietica, i cui protagonisti tre protagonisti furono Roosevelt, Churchill e Stalin, capi dei governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Sovietica.
In effetti, così come l’assetto dell’Europa sancito al vertice del 1945 fu il risultato della contrapposizione tra le democrazie anglosassoni e il comunismo sovietico, allo stesso modo la Costituzione italiana del 1948 scaturì dall’”incontro” tra i due grandi blocchi del dell’epoca a cui corrispondevano: la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito Comunista Italiano (PCI).
Certamente il lavoro dei costituenti fu più “creativo” e fecondo, e permise di includere nella carta costituzionale le tradizioni, istanze e impronte politiche e sociali dell’intera Italia antifascista. Tuttavia Jalta ebbe un profondo peso sulle vicende politiche italiane dei decenni successivi, possiamo affermare fino ad oggi…
L’ordine geo-politico di Jalta fu diligentemente mantenuto per quarant’anni da entrambi i blocchi: né gli USA, né l’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) si adoperarono seriamente per sovvertirlo. Ne è una prova la sostanziale inazione del blocco occidentale di fronte alle rivolte anti-sovietiche di Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), ed anche in occasione della stessa caduta del muro di Berlino (1989).
L’Europa divisa in due dal 1945 al 1989: in blu le nazioni fedeli agli USA, in rosso l’Unione Sovietica e paesi alleati. In grigio i paesi formalmente neutrali.
Nella spartizione dell’Europa, l’Italia finì nella sfera d’influenza statunitense, costituendone la situazione più “spinosa” e delicata. In Italia, infatti, esisteva il più forte partito comunista europeo che, pur rimanendo sempre all’opposizione, durante i trent’anni successivi alla fine della guerra sfiorò stabilmente il 40% dei voti, minacciando la supremazia democristiana che garantiva la fedeltà agli USA.
La situazione politica italiana, che rispecchiava in scala minore la divisione del mondo in due fazioni, determinò una situazione per cui chi non voleva i comunisti al potere votava DC, anche se non vi si identificava in toto, e viceversa. Un equilibrio bloccato, asfittico, asfissiante e pericolosamente delicato.
Dopo vent’anni di governi democristiani e i primi “esperimenti” di centro-sinistra con l’ingresso dei socialisti al governo, a cavallo tra anni ’60 e ’70, la situazione si fece assai “calda”: formazioni di estrema sinistra sparavano in strada, mentre bombe sui treni e nelle stazioni causavano paura e confusione, funzionali al mantenimento dello status quo.
Nel settembre 1973, in Cile, un terribile golpe militare, “non ostacolato” dagli USA, mise fine ad un governo di sinistra legittimamente eletto. Il messaggio era chiaro: se anche in Italia il partito comunista fosse andato al potere democraticamente, “certi poteri” non gli avrebbero poi consentito di governare. Un colpo di stato in Italia non era un’eventualità così remota in quegli anni.
Spari per le strade di Milano nel 1977
Di fronte a questo segnale, vasti settori dell’estrema sinistra italiana conclusero che era inutile illudersi di conquistare e mantenere il potere per via democratica e tanto valeva imbracciare le armi e darsi alla lotta armata. Allo stesso modo, dall’altra parte, la prospettiva di vedere i comunisti al governo, spinse parti del centro-destra a rinsaldare l’alleanza con gli USA e “tapparsi il naso” o addirittura lavorare per soluzioni e pratiche non esattamente democratiche. L’italiano equilibrio di Jalta era più in discussione che mai.
In questo contesto, qualcuno pensò che fosse necessario fare qualcosa e andare oltre la dura contrapposizione tra i blocchi che stava sfociando in uno scontro violento e sempre più lacerante per la nazione. Semplificando (ma chiarendo), in entrambi gli schieramenti (DC e PCI) ci fu chi comprese che, per evitare derive violente o incontrollabili, occorreva cercare concrete forme di dialogo che consentissero di mettere insieme i “buoni” di entrambi le fazioni, per isolare i “cattivi”.
Stretta di mano tra Aldo Moro (a sinistra) e Enrico Berlinguer (a destra) nel 1977.
Gli “architetti” di questo disegno politico, passato alla storia come “compromesso storico”, furono Enrico Berlinguer, allora segretario comunista e Aldo Moro, esponente di spicco della Democrazia Cristiana, (in particolare della sua corrente di sinistra), “il meno implicato di tutti” secondo una definizione pasoliniana.
L’idea era avvicinare i due partiti, con l’obiettivo di stemperare le tensioni e, concretamente, consentire ai comunisti di collaborare in qualche maniera al governo, se non con ministri, almeno potendo impedire che certi personaggi a loro particolarmente sgraditi lo diventassero. Il calcolo era ovviamente anche puramente politico: Moro voleva presentare il volto più umano e progressista della DC e Berlinguer raggiungere finalmente posizioni di potere a livello nazionale.
Il progetto era in qualche modo rivoluzionario e significava superare Jalta: non più un equilibrio basato sulla contrapposizione, ma un incontro tra i due mondi (al centro politico), che togliesse forza a chi soffiava sul fuoco e traeva ragion d’essere e privilegi da quello scontro. Le immagini delle strette di mano tra Moro e Berlinguer disturbavano assai sia agli USA e chi vedeva i comunisti come mangia-bambini, sia l’URSS e chi considerava l’intera DC come una consorteria mafiosa, corresponsabile delle bombe degli anni ’70.
Purtroppo la manovra fallì. Come spesso accade, quando due soggetti nemici provano a mettersi d’accordo, gli estremi di entrambe le fazioni remano contro. La pietra tombale fu il rapimento e assassinio di Aldo Moro nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse (estremisti di sinistra), che, in qualche maniera, “tornò utile” anche a tanti soggetti dell’altra sponda, tra cui i soliti USA che vedevano i comunisti come fumo negli occhi.
Tolto di mezzo il “dialogatore” Moro, in declino la spinta e l’utopia comunista, in Italia si aprì la stagione del “craxismo”, ossia una formula politica fondata sull’alleanza DC-socialisti, la cui figura centrale era il socialista Craxi. L’asse si spostò leggermente a sinistra, ma la sinistra vera e propria continuò a rimanere lontana dal potere e i comportamenti elettorali degli italiani non mutarono sostanzialmente.
Silvio Berlusconi (a sinistra) raccolse l’eredità di Bettino Craxi (a destra), unendo destra, pezzi della vecchia DC e dei socialisti, in funzione anti-”comunista” (oltre che in funzione dei suoi propri interessi…)
Poi cadde il muro di Berlino (1989) e venne Tangentopoli (1992-93), ma si cambiò tutto per non cambiare (quasi) niente. Lo smembramento della DC in due delle sue anime portò ad una nuova polarizzazione dello scenario politico che durò un ventennio: un “partito di Berlusconi” da una parte, che raccoglieva destra e la parte più conservatrice della DC e una sinistra più o meno disgregata dall’altra, che univa i figli del PCI più la fetta più progressista degli ex-democristiani. Ma, nonostante la contrapposizione di Jalta non avesse più senso d’esistere, Berlusconi raccolse attorno a sé milioni di italiani e vinse elezioni in nome della lotta al “pericolo rosso”.
E arriviamo ai giorni nostri, alla fine o comunque all’agonia del berlusconismo. L’attuale stagione politica può infatti costituire un’autentica rottura con il passato dal quale però, potrebbe tornare a rivivere, in altre forme, una nuova e antica formula politica: il compromesso storico.
La vera novità dello scenario politico è infatti la “salita” in campo di Monti, ossia la costituzione di una formazione di centro, con anche sfumature di destra se volete, lontana però dalle cialtronaggini del berlusconismo o della parte più retrograda della ex-DC. Dopo sessantacinque anni di polarizzazione bloccata (DC-PCI prima e berlusconismo-antiberlusconismo poi), dopo decenni di voto “contro”, spesso tappandosi il naso, forse un nuovo scenario e un accenno di nuovo comportamento elettorale degli italiani potrebbero presentarsi. Tanti, troppi italiani hanno votato Berlusconi nonostante non fossero cialtroni come lui, per non votare a sinistra. Questi italiani (Fini e Casini ne sono i rappresentanti politici più in vista), certamente corresponsabili di vent’anni di berlusconismo, possono però ora trovare un soggetto politico forte, tutto sommato rispettabile e alternativo, se non contrapposto, alla impresentabile accozzaglia “berluscon-leghista”.
Bersani e Monti: il compromesso storico del terzo millennio?
Nonostante quanto dichiareranno in campagna elettorale, né Bersani, né Monti potranno fare a meno di allearsi, se non altro per una questione puramente numerica: nessuna della due formazioni né sola, né con “naturali” alleati raggiungerà il 51% dei consensi. L’alleanza marcherà ancor di più le distanze tra il PD e formazioni quali Lista arancione, Movimento 5 Stelle e forse anche Vendola, ma l’alternativa sarebbe rimanere ancora fuori dal governo e consegnare l’Italia o all’ingovernabilità o a spericolate e insalubri coalizioni. E cos’è l’alleanza PD-Lista Monti se non, mutatis mutandis, una nuova versione del compromesso storico? L’operazione porterebbe, infatti, all’incontro, al centro, tra la sinistra più moderata e il centro-destra più rispettabile, sortendo l’effetto di isolare i rispettivi estremi (tra cui uno dei due assolutamente da isolare, ossia l’insalubre alleanza Berlusconi-Lega). Proprio quello che, in altra epoca, in altro contesto, con più gravi pericoli e diversi soggetti politici, tentarono di fare Berlinguer e Moro. Certo, tanti elettori di sinistra dovrebbero ingoiarsi Casini & co., così come tanti di centro-destra dovrebbero fare lo stesso pensando a tanti ex-PCI ministri. Ma in un Paese in buona parte fondamentalmente conservatore e immaturo politicamente come l’Italia, si tratta forse del migliore dei governi realisticamente possibili?…
Non stiamo qui sostenendo che sia il meglio a cui possa ambire l’Italia, la nostra è un’analisi. Che sottolinea come, a 35 anni dall’assassinio di Aldo Moro e dal fallimento del suo ardito progetto politico, forse solo oggi lo scenario politico italiano (stagnante da 65 anni a parte la breve eccezione dell’Ulivo e dei governi tecnici) potrebbe finalmente sbloccarsi e superare le conseguenze di quanto deciso, fra l’altro, in una città sovietica 68 anni fa…