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Il minimalismo e la vanitas intellettuale

Creato il 21 aprile 2012 da Theartship

Paola Pluchino

Occorre lavorare sulla ridefinizione della produzione, sulla ridefinizione del rapporto uomo e materia perché l’uomo possa ritrovare il proprio spazio senza essere attanagliato, asfissiato, ricoperto da un mucchio di cose futili, generalmente portatrici di simbolismi estremamente dubbi.[1]

L’universo estetico del Minimalismo è retto da regole logico-formali, come la semplificazione espressiva, il rigore geometrico, l’essenzialità delle forme, la modularità delle componenti e l’artificialità dei materiali[2]. L’analisi intorno al filone del Minimalismo, movimento sviluppatosi intorno agli anni Sessanta  negli Stati Uniti, mostra  immediatamente tutto il suo appeal poliedrico, la sua componente prima e fondante: ridurre secondo parti minime la realtà seguendo una volontà sintetica e chiarificatrice.[3] Già nel 1972 Gregory Bateson, nel suo saggio Verso un’ecologia della mente, forniva le coordinate per un nuovo approccio intorno alle dinamiche più proficue per una riflessione e una giusta forma di appropriazione del pensiero contemporaneo occidentale. Insieme allo studioso, sul confine tra epistemologia ed ermeneutica, si muove oggi, una pletora di intellettuali e simpatizzanti, con l’implicita volontà di tracciare le linee guida per un vivere elegante e svelto, spogliato da mille futili oggetti, ma anche pensieri superflui, gli stessi che oggi contribuiscono a rinfoltire quell’opacità comunicativa rendendo difficile il tracciato delle linee di ricerca, contemporaneamente produttive e profonde. Diverse realtà, dal testo La sfida delle 100 cose del californiano Dave Bruno fino ad arrivare al più ludico potpourri di EcologicalMind, passando per le innumerevoli mostre esposizioni ed iniziative (trasversalmente dal riciclo allo spostamento) disseminate sulla mappa culturale italiana e non solo, concorrono nel riformulare il fare artistico proprio nel verso di quei processi di accorpamento, pulizia e sintesi che i minimalisti perseguivano e presentavano. Oltre la cultura pratica, oltre cioè il riducente del fare quotidiano, è inevitabile notare, e doveroso per coloro che si occupano di dinamiche sociali, come questo atteggiamento, dalle origini anch’esse ibridate e poliedriche, sia confluito non nell’assioma (errato) di complessità vs riduzione, quanto nella dicotomia eccesso vs misura. L’atteggiamento minimalista concorre alla riflessione intorno all’assunto tale per cui proprio questo sia stato capace di risolvere e chiarire sociologicamente l’ atteggiamento dell’uomo quotidiano di fronte ai fatti di cultura, posto in sintesi come zoccolo duro all’interno del dibattito dello specifico artistico. Soprattutto, la poetica minimale sembra essere il filtro interpretativo più adatto alla spiegazione dell’uomo e alle dinamiche fluide di strutturazione del reale. Il problema, non di secondaria importanza subentra nel momento in cui la linea che separa esperta chiarezza da limitata faciloneria sfuma. Come comportarsi quindi? La questione è annosa. L’intuito è indispensabile per discernere un’opera di qualità da una superficie interessante ma che rimane sterile ornamento. Oltre ciò, gli intellettuali, veri memori dell’ammonimento dantesco lume retro non giova, dovrebbero limitare i loro interventi a cose di estrema importanza.  Le coordinate minimali vogliono così assumersi l’oneroso compito di sancire ciò che, oltre alla vanitas del bell’esprimere, conduca l’uomo a sapere grandi e immense cose con una chiarezza luminosa e franca, lontana dal petulante mondo dell’ampollosa e spesso oscura sapienza accademica.


[1] V. GUILLAUME, Scritti su Starck, Postmediabooks, Milano, 2006.

[2]M. SENALDI,  Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, Roma, 2003, p. 163.

[3]  Cfr. “Quelle strutture primarie apparivano molto simili all’essere sartriano, cioè a un nucleo di pura inerzia, di opacità materiale, ‘lavorato’ dal vuoto del soggetto umano, che veniva così chiamato a mettere in forma la loro intrinseca povertà. Certo è che non si era mai vista, prima di allora, un’impresa tanto spinta in direzione degli effetti reali (nello spazio e nel tempo)  in R. BARILLI, L’arte contemporanea, Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano, 2007, 315.


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