Il luogo comune sullo scrittore di successo vuole che la parte più gratificante della realizzazione di un romanzo sia la sua pubblicazione, il vedere la propria opera finalmente stampata in migliaia di copie rilegate, l’andar in giro per librerie incontrando lettori, rispondendo a domande sempre uguali e firmando autografi con dedica.
Come ho già detto più volte, io, invece, il giorno dell’uscita in libreria mi sento un po’ come un padre che accompagna il figlio maschio all’altare affidandolo all’affetto e alle cure di un altro uomo. Dare alle stampe un romanzo significa insomma liberarlo da sé, e lasciare che compia in autonomia tutto il percorso che la sua personalità gli consentirà di compiere.
La mia agente letteraria – facendo come giusto il suo mestiere – mi pungola di continuo perché le spedisca continuamente insieme qualcosa di nuovo da proporre alle case editrici, ma io, dopo diciassette anni di disonorata carriera di aspirante scrittore e infinite relazioni con addetti ai lavori di ogni genere, sono più interessato al lavoro di costruzione che non al tira e molla infinito e frustrante dell’iter verso lo scaffale della libreria.
In questi mesi, per esempio, incoraggiato dal fatto di essere riuscito a finire con una certa soddisfazione il testo teatrale ambientato negli anni ’80, ho finalmente trovato il coraggio di andare ancora più indietro nel tempo, e di prendere per le corna il vecchio sogno di scrivere un romanzo ambientato in quei seventies che, non avendoli vissuti se non di striscio, tanto mi affascinano e mi appaiono straordinari.
Volendo, la trama del libro ci sarebbe già tutta, e sarebbero anche pronti sia i profili dei personaggi che le ambientazioni. Ma il processo di ricerca storica, di lettura di giornali d’epoca, di visione di filmati vintage, mi affascina talmente che continuo a rimandare l’inizio della stesura, per il puro piacere di crogiolarmi ancora un po’ in queste tonnellate di memorabilia e documenti odorosi di tempo che fu.
Per quale motivo dovrei velocizzare le operazioni di scrittura, e non godermi il più possibile questo momento di arricchimento personale, appagante sia dal punto intellettuale che da quello emotivo? Davvero varrebbe la pena di rinunciare alle occasioni offertemi dal processo creativo solo per arrivare qualche anno prima in libreria? Ha veramente un senso, durante un viaggio, perdersi la peculiarità del paesaggio circostante solo per arrivare prima a destinazione?
L’ipotesi (peraltro assurda, nel mio caso) di diventare un best seller non mi pare giustifichi il lasciarsi prendere dalla fretta. E anche un eventuale abbraccio caloroso di migliaia di fans in una libreria non mi scalderebbe quanto l’evanescente compagnia dei personaggi di mia invenzione che, possessivo ed egoista come sono, cerco di tenere solo per me il più possibile.