Magazine Poesie

Il mio paese. (P.2)

Da Nicolamondini

Il mio è un paese.Sono nato in paese.Vivo in paese.Sono un paesano. Ho sempre pensato che quello in cui vivo fosse il prototipo di paese, un paese è qualcosa di diverso da una piccola cittadina perché nell’essere la ridotta dimensione di qualcosa che nella sua interezza assume un significato diverso finirebbe con l’acquisirne le caratteristiche , ecco dunque che l’unico termine per definire il paese è il paese. Il mio non era né di montagna e tantomeno di mare, perché talora, lettore mio, il paese si rifiuta di sottostare a stupide classificazioni, il mio è il paese in cui nacqui. In realtà non sono nato proprio nel mio di paese ma in un piccolo paese , un altro, qui vicino ma non troppo perché un giorno possa dire di non essere nato dove ho vissuto la mia adolescenza, la mia giovinezza.Dal balcone con i geranei e le buganville si vedeva un pino, un prato , tre palazzi e il mondo, vedevo il mondo quand’ero ragazzo perché il mondo era  quel paesino arroccato sulle pendici del Vesuvio, dal balcone si vedeva Napoli e Napoli vedeva il  mio balcone , vi balzava dentro , sembrava che il mio balcone s’affacciasse sulla città, e la città s’affacciasse sul mio balcone ,il balcone della casa dove trascorsi i momenti più belli della vita vera , quando ancora la domenica si andava alla messa perché lo imponeva il buon senso , la buona maniera, la nonna con le sue buone maniere, e la fede vera e sincera d’ogni fanciullo, d’ogni giovine, anche quello più schivo , anche quello più restio. Alla sera un lampione illuminava la stradina dove abitavo, era un piccolo vicolo, né troppo stretto e tantomeno eccessivamente largo, collegava la strada principale del paese ad una zona decisamente più moderna, quando calava la sera il buio s’impossessava con instabile padronanza di tutto quanto circondava la mia abitazione, l’odore del giorno che finisce invadeva le narici mie e di ogni altro paesano, le narici di chi aveva lavorato e di chi aveva studiato, di chi aveva amato e di chi aveva sofferto, per se , per gli altri, per un altro che ama , che amò o che ha smesso d’amare. Quando scendeva la sera i lampioni s’infuocavano , e la luce inondava con rispetto la stradina, illuminando, ma non troppo, i palazzi e l’asfalto che , durante il giorno, aveva accolto i timori e i sentimenti di vita della gente che passa e che corre. Ora è sera nel paese e il paese torna ad essere scenografia d’un palco che perde i teatranti , che sovrasta le tavole polverose d’un teatro che all’imbrunire sembra non aver visto mai piede d’attore, le auto si fanno rade e le voci velate , nascoste, pudiche , familiari, intime, foriere di segreti pensieri, segrete riflessioni che s’animano quando la famiglia s’unisce, alla sera, alla sera i portoni si chiudono quando l’ultimo bar nella piazza rimane aperto per chissà quanto , per chissà chi, per vendere birra , per vendere alle puttane che di giorno si fingono signore e di notte come Boccadirosa attirano l’ira funesta delle cagnette, ma quelle di paese son comunque signore , quando siedono al bar, sorseggiano caffè e si scrutano per comprendere a chi abbian sottratto l’osso.

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