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Il mio primo grande amore emiliano

Creato il 30 settembre 2010 da Paperoga

Il mio primo grande amore emiliano

Ci sono luoghi in Emilia che mi sono divenuti familiari. E, in qualche strano modo, anche affascinanti, talmente imbevuti come sono di “emilianità”, da risultare quasi clichè di ciò che ci si aspetta da questa mia terra di adozione.

Il primo giorno in cui arrivai in Emilia, 17 anni or sono, ero reduce da ben 11 ore di treno. Salento ed Emilia distavano un’ora, ora e mezza in più di quanto non distino oggi, grazie alle magie delle FS. Stanco sporco sudato ed affamato, giunto in un pomeriggio fresco e accolto da un verde cittadino quasi inaccettabile agli occhi di un terrone, avrei voluto passare la serata in casa di mio cugino Caronte, mentore locale nonchè compagno di viaggio nonchè abile traghettatore della mia giovinezza salentina verso più adulte sponde emiliane. Ma il cugino non era di quell’idea, dopo ore ed ore di noia e stasi aveva voglia di sgranchirsi gambe e ventre, ed alle 21 di una serata di fine agosto già fresca e pungente, mi portò con sè, scaraventandomi in uno dei topoi più classici dell’estate emiliana: la festa dell’Unità.

La Festa dell’Unità, o sai il cazzo come si chiama oggi, è il condensato gastronomico/politico/cultural/sociologico di questa terra. In qualche centinaio di ettari di parco, gazebo su gazebo, tutti uguali e puliti ed accoglienti, che sono un po’ fiera, un po’ giostre, un po’ bar di paese, un po’ ritrovo politico, un po’ laboratorio di idee, un po’ porto turistico. Accanto alla gigantesca libreria c’è il ristorante, accanto alla sala dibattiti il pungiball. Dietro gli stand delle macchine agricole, il concerto rock. E sopratutto, gioia passione e monomania degli emiliani, c’è tanto di quel cibo, e c’è il maiale.

Un po’ spaesato e piacevolmente sedotto da quella imponente ed ordinata fiera del benessere agricolo provinciale condita da una spruzzata di impegno politico, rock e beneficenza, mi feci guidare da mio cugino che invece a lunghe falcate si dirigeva verso la meta prefissa: un chiosco stretto e colorato, sulla cui facciata campeggiava la scritta “gnocco e baccalà”.

Ora io stavo morendo di fame, quindi mi andava bene pure mangiare baccalà e gnocchi, anche se l’idea di mangiare gnocchi di patate in piena estate mi lasciava un po’ perplesso.

Non, non sono gnocchi di patate, è gnocco fritto, è…come dire….niente, li devi mangiare, è inutile spiegarti”, mi fa mio cugino misterioso e conturbante. Che diavolo sarà mai sto gnocco? Cosa avrà di tanto strano da non poter essere descritto? Arrivati al nostro turno, mio cugino ordina 10 pezzi di gnocco fritto e dell’affettato. Dopo un paio di minuti ci recapitano due sacchettoni di carta unti di olio, e una guantiera di affettati misti.

Ci sediamo, accanto ad una bottiglia di lambrusco secco comprata da Caronte. Apro il sacchetto e prendo questo strano coso fritto, questo cuscinetto quadrato di pasta fritta, bombato e vuoto all’interno, leggerissimo e dorato.

Beh, tutto qui? mi aspettavo qualcosa di più pesante, in tutti i sensi. Ne hai presi dieci, mi sa che facciamo la fame a sfamarci solo di questa roba“.

Caronte nulla dice, e mi invita a mangiare. Chiudo a metà lo gnocco (anzi, “il” gnocco, amici reggiani, so bene come si chiama...) ci metto dentro del prosciutto crudo, e addento….

Se fossi stato meno cattolico di allora, non dico ateo come adesso, ma diciamo una via di mezzo, avrei bestemmiato dal piacere. Cioè, lo giuro, ma quanto era buono? Cosa diamine c’era dentro? Un’esplosione di sapore, anzi, l’idea stessa platonica di sapore e di gusto erano contenuti in quel cuscinetto d’aria fritta. Altro che 5. Con affettati o senza, ne mangiai una decina, prima che mio cugino mi portasse di peso fuori dallo stand, mentre io, totalmente drogato, reclamavo ancora altri sacchetti unti di quel nettare maialaceo dimenandomi come un ossesso. Ubriaco di sapore, la mia vita quella sera cambiava per sempre. L’Emilia ed io ci incontravamo e non sapevamo che la nostra storia sarebbe durata sino ad oggi. Il mio primo grande amore emiliano, quella sera, mi aveva lasciato tracce d’unto sul bavero della polo, e le guance scintillanti d’olio fritto,  mi aveva avvinto a sè, inondandomi di colesterolo come solo un’alluvione biblica, aveva placato la mia sete con quel vinaccio chiamato lambrusco. Il mio palato non sarebbe stato più lo stesso (e neanche la mia linea, in tredici anni sono passato dai 58 ai 69 kili, ingurgitando chili e chili di quelle soffici nuvole di strutto).

Continuo a ritenere il gnocco fritto (e le sue varianti solo nominali, quali ad esempio la torta fritta parmaperopolese) uno dei motivi per cui vivere (e morire di infarto). Così entusiasta da questa scoperta, ogni volta che qualcuno veniva e viene a trovarmi per la prima volta in Emilia, subito corro a fargli assaggiare quel popò di manna della pianura padana. Con risultati alterni, però. Con mio padre sfondavo una porta aperta. Per uno che ha coniato una vera e propria legge empirica, sancendo che “tutto ciò che fritto è buono”, vedere tutto quel gnocco fritto sul tavolo della festa dell’Unità successiva, è stato per lui come per un bambino osservare i giocattoli da dietro la vetrata del negozio. Ho una foto in cui lui, ubriaco di cibo e vino, addirittura mostra il pugno chiuso come un comunista duro e puro. Lui, diamine, maledetto pidiellino.

Altre volte mi è andata molto peggio invece. Ricordo ancora il primo appuntamento con una ragazza non emiliana proprio alla festa dell’Unità di Reggaemilia. Io per far colpo la porto subito allo stand “gnocco e baccalà”, sempre quello. Prendo un cartoccio a testa di gnocco fritto e glielo porgo come si porge una collana di diamanti, aspetto fremente che anche lei sbarelli dal piacere sapido del maiale in forma di cuscinetto a sfera. E invece per poco non mi ha vomitato addosso. Ricordo ancora il suo sguardo disgustato verso quel cartoccio ad infreddolirsi nella sera settembrina, e il suo sguardo dubitante verso un cazzo di idiota che al primo appuntamento anzichè fiori e cena a base di pesce gli proponeva un cartoccio di untissima e pesante roba fritta da mangiare in piedi.

Tredici anni sono passati da quella sera. Ricordo che dopo quella mangiata vagai per la festa, tronco perso, per sedermi su una sedia di plastica nell’area concerti della Sinistra giovanile, dove un giovane e a me del tutto sconosciuto Vinicio Capossela, con qualche capello in più e meno barba, suonava il piano per una trentina di persone, accompagnato da un contrabbassista. Mi sembrò un simpatico ubriacone, lì per lì, null’altro. Ero troppo rigonfio di gnocco fritto per accorgermi che stavo guardando nascere un geniaccio. E infatti il colpo di fulmine con lui dovette aspettare qualche anno.

Succede, invaso dai grassi saturi, di non percepire altro che la propria mai del tutto chetata gozzoviglia. E’ un prezzo che si paga volentieri.

Ricetta del gnocco fritto reggiano

Prendere un maiale, vivo o morto non importa, e calarlo in un altoforno sino a provocarne la liquefazione.

Raccogliere i litri di maiale liquido e serbarli gelosamente in luoghi protetti.

Prendere un paio di litrate di quel nettare oleoso e metterli a friggere.

Calarci dentro della pasta di farina sale e acqua precedentemente preparata. La pasta vivrà di vita propria, deformandosi e gonfiandosi fino a dorarsi.

Lasciate che quella pillolona fritta e drogante profani le vostre arterie e stupri il vostro stomaco. Se non potrete più farne a meno, iscrivetevi nel mio gruppo di anonimi adoratori del fritto all’emiliana. Tentiamo di smettere da anni.


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