Il Teatro Duse porta sul palcoscenico il lavoro di Carlo Buccirosso, Il miracolo di Don Ciccillo, una pièce che si iscrive nel prodigo filone della commedia napoletana, che ha il suo naturale antenato nel teatro di Eduardo. Buccirosso che è, oltre che regista, l’indiscusso mattatore della rappresentazione, porta in scena la storia di una normale famiglia italiana, che deve far fronte alla crisi economica impellente, ma anche e soprattutto ad una crisi di rapporti e valori interni. La goccia che fa traboccare il vaso è l’arrivo di una serie di cartelle esattoriali che ridurranno il protagonista Alberto Pisapia un perseguitato, incapace di affrontare la vita nelle sue varie componenti, tanto da entrare in depressione e mettere in difficoltà l’intero nucleo familiare, portandone a galla i segreti più intimi o, se preferite, scoprendone gli altarini. Vediamo affacciarsi sul palcoscenico tutta la tradizione popolare napoletana, attualizzata da un’impronta di sana modernità, che rende il testo drammatico, ma allo stesso tempo comico, grazie all’intenso dinamismo e alle astute trovate ad effetto che rendono le vicende a tratti esilaranti, a tratti amare. Si indagano i profondi meandri della psiche umana, che a volte cerca proprio in una “pazzia”, quasi guidata, una sorta di fuga per proteggersi da una realtà dura e spiacevole, che mette a nudo i vizi e le virtù dei vari protagonisti. Il povero Pisapia, accerchiato da due figli inetti (Matteo, eterno studente che sembra vivere in un altro mondo, e Vincenzo, apparentemente più assennato, ma in realtà interessato solo a sfogliare giornali sportivi alla ricerca di notizie atte a vincere una legata alla Snai) ed una moglie, ex-cantante, eternamente portata alla sceneggiata, ha due grandi nemici: il fratello Ernesto, il tipico avvocato azzeccagarbugli, e la suocera Clementina, funzionaria di Equitalia, rigida e senza cuore.
Intorno al suo letto di contrizione si affannano così parenti-serpenti, interessati ognuno al suo specifico tornaconto, che cercano e sperano di ottenere il massimo dalla prematura dipartita di Alberto, e personaggi di contorno (l’infermiera, la tata, il postino, il prete, il dottore) tutti ben caratterizzati ed animati da contrastanti sentimenti. La commedia è sospesa dunque tra realtà e sogno; le vicende si susseguono in un alternarsi di lucidità e follia, in cui i protagonisti, come gli spettatori, restano avviluppati in un complesso intreccio che lascia un dubbio amletico: sogno o son desto? I tentativi di suicidio e di “suocericidio” del protagonista rimangono pertanto appesi ad un interrogativo che, sinceramente, non sono riuscito a risolvere: quel che vediamo svolgersi è cioè un percorso logico e preciso della vicenda, in termini poveri è realtà, oppure è soltanto un grande sogno generato da una mente malata, venata di una follia contagiosa? La conclusione è comunque quella di aver assistito alla tipica tragedia umana da cui però riescono a scaturire risate intelligenti, non fini a sé stesse e, per certi versi, quasi catartiche. I generosi applausi finali, indice di gradimento del pubblico, hanno premiato una recitazione viva e partecipe in cui tutti i membri della compagnia hanno profuso il meglio di sé riuscendo a fotografare una situazione, e a trasmettere delle sensazioni, in cui ciascuno di noi ha potuto facilmente immedesimarsi.
Per le immagini si ringrazia il Teatro Duse di Bologna – Fotografie di Gilda Valenza