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Villa sul mare (1864-65). Nelle sue varie versioni, questo dipinto ci trasporta in una spiaggia silenziosa, dove emergono le mura di un palazzo. Ci sono statue, fontane, padiglioni. Ma il palazzo è alla deriva, e in mezzo ai marmi già si insinuano le piante, i cardi, i cipressi piegati dal vento. Una figura solitaria, vestita di nero, è ferma in piedi sulla spiaggia; accanto a lei sono i relitti del mare. Chi sta aspettando, questa figura malinconica? Perché il suo bel palazzo va in rovina?
Caccia di Diana (1894). In un paesaggio bucolico, ai margini di un bel boschetto, in una giornata uggiosa in cui le nuvole grigiastre e gonfie testimoniano della vicinanza del mare, su di in praticello ameno spazzato dal vento alcune figure inseguono un cervo, trafitto da un paio di frecce. Sono vestite all’antica, e i loro corpi sono macchie di luce, pennellate di colore. Il paesaggio soltanto, forse, è reale; mentre Diana e tutti gli altri sembrano usciti da un sogno, evocati da un mito ancestrale da cui ancora non riusciamo a liberarci.
Lotta di centauri (1872-73). Sulla cima dell’Olimpo – forse –, dove le nuvole biancastre sono il segno dei confini del mondo, alcuni centauri – sono il simbolo della forza bruta – combattono fino alla morte, brandendo enormi sassi e ferendosi l’un l’altro in una lotta universale e senza tregua. I colori terrosi – eccezion fatta per l’azzurro più simbolico del cielo – rendono queste figure potentemente allegoriche, ed alludono alla forza originaria e indifferente della vita, nell’accezione volontaristica di Arthur Schopenhauer.
Musa di Anacreonte (1873); Euterpe con una cerva (1872); Flora (1875). Sono tutte figure femminili accomunate dalla stessa sensibilità pre-simbolista, ma segnate dall’impronta inconfondibile di Böcklin. Sono figure misteriose, statuarie, glaciali; oracoli che sanno troppo, che hanno visto tutto e che non temono la loro conoscenza. Sono muse ispiratrici, divinità fredde e bellissime, ma guai ad avvicinarle troppo! Nel loro sorriso c’è un’ombra di scherno; potrebbero trafiggerci con il solo sguardo! In esse si nasconde la potenza generatrice e feconda della terra, la potenza più terribile e mortale quando viene sciolta!
Risacca (1879). Non esistono parole per descriverla. Un’immensa allegoria della risacca, del rumore incessante del mare. Una ragazza sta suonando l’arpa, in una stretta insenatura ai piedi di una roccia lambita dal mare. Di quante cose non ci accorgiamo, quanti rumori non sentiamo in queste case riscaldate, in questi comodi sofà!
Odisseo e Calipso (1883). Se ne è ricordato De Chirico, nel suo splendido L’enigma dell’oracolo. Vedere Ulisse in quello strano atteggiamento, solo in piedi su una roccia a meditare, di fronte al mare; e la regina Calipso, adagiata sull’entrata di una grotta, la regina di quell’isola lontana, l’isola dei sogni, l’isola dell’oblio! Ulisse sta pensando alla sua Itaca, a Penelope, a Telemaco; o sarà forse… Forse quello non è Ulisse, ma una statua di sale, un simulacro di un qualcuno che ora è assente. Dovrebbero esserci sempre delle simili statue, in ogni nostro litorale. Insegnerebbero a guardare il mare senza il sogno di comprenderlo; riaccenderebbero la nostalgia – per chi? Per che cosa?
L’isola dei morti (1880). È questa solo una versione, delle cinque che accompagnano la vita al suo tramonto. Ci troviamo a solcare le acque, in compagnia di un traghettatore sconosciuto. Sulla barca c’è il nostro feretro, l’ultima cosa che rimane della nostra vecchia vita. Davanti a noi, si innalza un’isola – un’isola misteriosa, tutta piena di cipressi, in mezzo a un mare di silenzio. Dalla stretta insenatura si intravedono dei loculi – o delle stanze, forse, in cui presto potremo dormire. Vorremmo immergerci nel quadro, esplorarlo, saperne di più. Ma sapere dell’altro ci è negato, ed è evidente: chi è tornato a raccontarci della morte?
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