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Il Nilo e la memoria del futuro

Creato il 19 febbraio 2011 da Fabry2010

Articolo di Guglielmo Spirito


Gli dei conoscono il futuro, gli uomini ciò che accade,
i saggi ciò che si avvicina.
Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VIII, 7

 

Gli uomini conoscono ciò che accade.
Il futuro lo conoscono gli dei,
assoluti e unici detentori di ogni luce.
Del futuro i saggi vedono
Ciò che si avvicina. L’udito,

in ore di studi profondi, a volte
è scosso. Il segreto clamore
dei fatti che si avvicinano giunge loro.
E lo ascoltano con devozione. Fuori, invece,
sulla strada, il popolo non sente nulla.

Konstantinos Kavafis, I saggi ciò che si avvicina

Assisi, febbraio 2011

“Un attentato al cuore della stessa identità nazionale egiziana”. Non trova altre parole Alessia Amenta, curatore del Museo Egizio in Vaticano commentando le devastazioni prodotte all’interno del Museo del Cairo durante i tumulti recenti, ed il furto di otto reperti risalenti a tremilatrecento anni fa; reperti preziosissimi, provenienti alcuni dal famoso corredo della tomba di Tutankhamon.
Si, i danni sono contenuti; le fiamme delle bombe molotov hanno deturpato solo il giardino, i muri e le finestre. Si, si è evitato il saccheggio a man bassa che ha devastato il Museo di Bagdad una manciata di anni fa, con centinaia – migliaia? – di pezzi inestimabili – di Sumer e Akkad, Assur e Babilonia – trafugati e inghiottiti dal nulla, scomparsi dalla storia e per la memoria – ammirata e fragile – degli uomini. Devastazione sfiorata. O assaggiata.

Brucerà ancora la Biblioteca di Alessandria?
O la montagna di libri a Berlino?
Brucerà ancora Roma?
O Parigi?
Cadrà ancora Costantinopoli?
Resisterà Malta?
E Vienna?
O New York?

Gli Unni, Vandali, Tatari, Turchi, Nazisti, Stalinisti, Khmer Rossi, Talebani ed Orchi che siano saccheggeranno, calpesteranno, insozzeranno, deturperanno, rovineranno per sempre?
Rimane solo lottare, disperati, come I Troiani, di Kavafis?

I nostri sforzi – sciagurati che siamo! –
i nostri sforzi valgano quelli dei Troiani.
Per un po’ ce la fai, per un po’ ti rinfranchi
E per un briciolo di ardire
Subito spuntano le belle speranze.

Ma c’è sempre qualcosa che ci blocca.
Proprio di fronte a noi, dal luogo trincerato
vien su Achille, con le sue grida ci spaventa. –

Valgono quelli dei Troiani
i nostri sforzi. Bravi e risoluti
c’illudiamo di rovesciare le sorti,
e stiamo fuori a lottare.

Ma nel momento più grave della crisi
bravura e decisione se ne vanno;
la volontà ne è scossa, anzi impedita
affanniamo tutt’intorno alle mura
cercando scampo con la fuga.

Noi corriamo alla nostra rovina, che è certa.
Là sulle mura, già incominciano i lamenti,
è il compianto dei ricordi e del fervore d’un tempo.
Per noi Ecuba e Priamo piangono amaramente.

Mentre da Piazza Tahrir, cuore pulsante all’impazzata del Cairo, sale il boato delle proteste che spingono – e ottengono – la fine di un epoca, l’attacco al Museo e ad altri siti archeologici in lungo e in largo nel paese, rivela un ghigno di beffa, un gesto brutale –emergente, incalzante – di barbarie, che mi trafigge il cuore con un senso irreparabile di tramonto e di perdita. Sconfitta. Congedo. Resa. Come ne Il dio abbandona Antonio, di Kavafis:

All’improvviso, a mezzanotte, come si udrà
un invisibile tìaso passare
con musiche stupende, con canti-
la fortuna ormai arresa, le opere
non riuscite, i progetti tutti
fallaci, non piangere inutilmente.
Come pronto da tempo e coraggioso,
salutala, Alessandria che scompare.
Soprattutto, non t’illudere, non dire che fu
un sogno, che si era ingannato il tuo udito;
a speranze vane non cedere.
Come pronto da tempo e coraggioso,
come s’addice a te, degno di una tale città,
avvicinati con sicurezza alla finestra
e commosso, ma senza
preghiere né vili lamenti,
ascolta quale ultimo piacere i suoni,
gli stupendi strumenti del tìaso segreto,
e salutala, Alessandria che perdi.

Sono dall’altro lato del Mediterraneo, nel crudo inverno che sferza l’Europa. Nel grigiore cupo che avvolge l’ombrosa Umbria, le parole di Gogol in Taras Bul’ba riecheggiano in me – ravvivate da mio padre, che mi domanda preoccupato al telefono “Cosa sta succedendo nella tua seconda patria?” – :
“Chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data per patria? La patria è ciò che cerca la nostra anima, ciò che per essa è più caro di tutto”.
Si, l’Egitto fu – dagli anni remoti della mia infanzia- come una sorta di ‘seconda patria’ per me. Dimoravo allora – con la mente – più sulle dolce rive del Nilo che nell’amara, aspra solitudine della pampa…
Con le parole di Nazim Hikmet (turco e inoltre comunista (!), che mi accompagna da tempo):

Lavata su una tolda ventosa
con acqua di mare
e spazzola di ferro
come una camicia di canapa
porto sulle mie spalle la tristezza.

Invece, adesso so – se l’affermazione di Gogol è degna di fede- che la mia patria adesso è altrove: penso a Savona, la guardo nella memoria della mia carne, e sento lo spazio che si apre – di un respiro vasto come il mare; e là la riconosco, la patria –la radice del presente e del futuro –, come il bambino riconosce dove appoggiare la testa nell’incavo di un torso vigoroso, in un giaciglio caldo e odoroso (Poserò la testa sulla tua spalla / e farò / un sogno di mare / e domani un fuoco di legna / perché l’aria azzurra / diventi casa. // Chi sarà a raccontare / chi sarà / sarà chi rimane / io seguirò questo migrare / seguirò / questa corrente di ali, nelle parole di De André). Impossibile stringere l’ immagine che resta in me, e dà forma e colore –e sapore- a ogni sogno, parola, idea o gesto…

I giorni del futuro ci stanno davanti
come una fila di candele accese –
calde, dorate, luminose.

I giorni del passato restano indietro,
triste fila di candele spente,
le più vicine mandano fumo ancora,
fredde, consunte e storte.

Non voglio più vederle: mi addolora la vista,
e mi addolora della loro prima luce il ricordo.
Guardo avanti le candele accese.

Non voglio girarmi e con terrore scoprire
come presto si fa lunga la fila buia,
come presto aumentano le candele spente.

Le domande, tremolanti, sgocciolano sulla pelle come fossero la cera di una candela accesa. Bruciano.
La candela si spegne. Tenebre. Vuoto. Nel buio pesto, una voce rischiara la notte:
‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere…’.
Giuseppe. Non temere.
Già. Il pensiero si distoglie dal cupo che sta inghiottendo tutto dentro di me.
La candela si accende. E rimane accesa.
Vado verso la luce che brilla e che si spegne – e si riaccende –, titubando cadendo rialzandomi.
Giuseppe, lui stesso, ha deciso di non appartenersi: non è che un riflesso di un’altra Luce, che non conosce tramonto. Questa è stata la sua decisione, è diventata la sua felicità. E questo lo spiega interamente.
‘Giuseppe, alzati! Prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto..’
In Egitto. Già.
Terra di rifugio, salvezza per il Salvatore.
Lui non dimentica, non lascia scivolare nell’oblio: amor con amor si paga.
Egitto è la sua seconda patria…

Anche per me, come per Giuseppe, la notte buia e piena di voci minacciosi, si rivela chiara quanto basta per camminare.
‘Non temere’
‘Alzati’
‘Prendi con te e va in Egitto…’

In una lettera al figlio Christopher, J.R.R. Tolkien scrisse :

Appoggiato contro il muro mentre uscivano dalla chiesa c’era un mendicante vestito di stracci, con una specie di sandali legati ai piedi, una vecchia lattina legata al polso e nell’altra mano un rozzo bastone; aveva una barba castana e un viso stranamente ‘pulito’, con gli occhi azzurri; stava fissando lontano immerso in qualche pensiero, senza badare alia gente, senza mendicare assolutamente. Non ho potuto resistere all’impulso di offrirgli un piccolo obolo e lui l’ha preso con grave gentilezza, e mi ha ringraziato cortesemente, e poi e tornato alla sua contemplazione. Pensavo che assomigliasse a san Giuseppe sulla strada per l’Egitto. Sembrava (e che pensiero rallegrante in questi giorni squallidi in cui la poverta sembra portare con se solo peccato e miseria) un mendicante sacro ! La sua devozione era cosi evidente, che molti ne sono stati edificati. Non so perche, ma trovo questa cosa immensamente confortante e bella.

In giorni di violenza, tumulti e sussulti che hanno travolto l’Egitto nell’onda larga della Tunisia, accanto ai muri del Museo in fiamme, il mio pensiero corre alle Suore francescane della beata Madre Caterina Troiani, che a fianco al Museo reggono una scuola italo-araba tra le più rilevanti del Cairo.
Penso a suor Aanam, mia cara amica copta, che al telefono mi racconta essersi asserragliata con le consorelle francescane ad Alessandria, dove ancora quest’anno hanno fatto gli Esercizi Spirituali, impedite di poter ritornare ai diversi conventi sparpagliati – da Suez ad Assiut e a Luxor –, perché le strade e le ferrovie sono in balia delle manifestazioni. E temono – come tanti copti – uno scenario che degeneri verso un nuovo Iraq… o un nuovo Afghanistan.
L’Egitto che mi duole non è solo quello di Tuya e Yuya – genitori di Amenhotep III –, di Nefertiti ed Akhenaton o di re Tut, o delle mummie e statue danneggiate o traffugate; è l’Egitto di carne e sangue, vivo, di suor Aanam e le Sorelle francescane, e dei tanti copti che conosco, e della povera gente. Vedo i loro volti, i loro occhi, i loro sguardi, il loro sorriso. La loro ansia. E la paura. Affido a san Giuseppe le suore e le allieve, lui che è il Protettore provvidente dell’Istituto in ogni bisogno spirituale e temporale, e che sempre ha custodito le sue figlie…

Parole intrise di consolazione, quelle della ebrea carmelitana e martire Edith Stein, in un’Europa ingoiata dalla tempesta:

Il cielo è pesante e oscuro sopra di noi.
E dunque sempre notte e la luce non vuole più risplendere?
Lassù il Padre si è allontanato di noi?
Il bisogno opprime il cuore come un incubo.
Non c’è nessun salvatore attorno, che sappia aiutare?
Guarda! Un raggio penetra vittoriosamente le nubi,
una luminosa stellina guarda amichevolmente in basso,
con sguardo paterno, buono e mite.
E così io accolgo tutto quanto ci angoscia, l’innalzo e lo pongo nelle tue mani fedeli:
Accettalo-
St. Joseph, sorg!
San Giuseppe, provvedi tu!

Una feritoia di luce, che squarcia il soffocamento, un raggio che penetra vittoriosamente le nubi. Una finestra, che consente di vedere al di là di essa:
Così una finestra è una finestra perché dietro si estende il regno della luce. E allora la finestra stessa, dandoci la luce, è la luce; non ‘somiglia’ alla luce, non si lega in un’associazione soggettiva alla rappresentazione soggettivamente concepibile della luce, ma è la luce stessa, ed è inseparabile dal sole che brilla nello spazio esterno, come diceva Pavel Florenskij.

‘Non temere…’

Come potrei, dopo essere stato in Sardegna?
Cagliari. Città della Madonna di Bonaria, patrona della mia Buenos Aires.
Appena finiti gli Esercizi Spirituali predicati ai frati Cappuccini e Conventuali a Laconi, nel convento di sant’Ignazio a Cagliari conobbi fra’ Lorenzo Pinna.
E’ un semplice fratello laico Cappuccino di più di novanta anni, che mi lasciò muto e tremante. Stupito, grato e deliziato.
Una sorgente scavata nei pozzi della sua anima di una tale pacata letizia, che, se sgorgasse, basterebbe per suscitare gioia in tutta l’isola e allagherebbe il Mediterraneo! I suoi occhi castani chiari sprizzano una letizia e una benevolenza così schiaccianti che mettono (quasi) a disagio: tanto è ingestibile, intollerabile percepire – con certezza meridiana – di essere voluti bene e accolti fino all’inverosimile…
Accarezzato dolcemente, abbracciato con lo sguardo e chiamato per nome; come se una fragranza riempisse la stanza con il profumo di frutteti e di erica assolata piena di api.
E quello sguardo – lo senti, lo tocchi, lo gusti, lo temi, lo incorpori… – e solo lo spruzzo del getto d’acqua che proviene da Altrove, da Altri, dal seno incommensurabile e infuocato dei Tre, Sorgente di Acqua Viva.
Un solo paio d’occhi ho richiamato all’istante, riconoscendoli ‘imparentati’: gli occhi color miele di Madre Teresa di Calcutta, con tutto quello che lo sguardo di lei – su di me – comportò.

Queste due paia di occhi mi giungono al cuore in modo deciso e sicuro, come fossero frammenti di un messaggio parzialmente cancellato, i lineamenti di un viso dimenticato. Inondare di quella fiammante semplicità l’intera vita è l’unico vero scopo, parafrasando una frase di G.K. Chesterton.
E’ sentire un sereno vento soffiare, ed entrare un’aria totalmente fresca, pulita e giovane, come se mai nessun essere vivente l’avesse ancora respirata, proveniente da alte vette nevose sotto un sole splendente, o da remote spiagge dorate lavate da mari di spuma…

Non è forse il sapore dell’esultanza nel cuore di Giovanni che dice: ‘L’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo’ (Gv 3, 29)?
Sono le parole scelte da fra’ Emanuele per accompagnare l’immaginetta ricordo della sua Ordinazione diaconale il passato 7 gennaio, a Castrovillari.
L’esultanza nella gioia dell’amico nel sentire – e riconoscere – la vicinanza dello sposo: riconoscere – e annunziare –, i lineamenti di un viso dimenticato, inondare di quella fiammante semplicità l’intera vita è l’unico vero scopo del ministero ordinato. Annunziare che lo sposo è qui, e che nessuno potrà strapparci dalla sua presenza. Mai.
Il nostro linguaggio – dice Emanuele –, smacco alla solitudine che separa, è eco dell’eterno raccontarsi amoroso dei Tre, eco della voce dello sposo, che ci invita a nozze, al banchetto dei Tre. Quindi

‘Non temere…’

Lo sguardo del vecchio fratello Cappuccino e la voce del giovane diacono Conventuale rendono comune testimonianza all’insondabile, sovrabbondante, traboccante Amore dei Tre. Come dubitare?

‘Non temere…’

Oso domandare (domandarmi/ti/ci) con Atiq Rahimi,
‘Se io non mi alzerò
se tu non ti alzerai
se egli non si alzerà
allora chi terrà accesa la fiamma in queste tenebre?’

Il mio cuore risponde. Uno sguardo e una voce mi aizzano.
Sento le parole che Pippin dice a Beregond, guerriero di Gondor :
‘Il mio cuore si rifiuta di disperare. Gandalf cadde, eppure è ritornato ed è qui fra noi. È ancora possibile rimanere ritti, anche solo su di una gamba, o almeno sulle ginocchia.’
‘Ben detto!’, esclamò Beregond, levandosi in piedi e camminando su e giù. ‘No; benché ogni cosa debba un giorno scomparire del tutto, per Gondor l’ora non è ancora giunta. Anche se le mura saranno conquistate da inesorabili nemici che vi innalzeranno davanti una montagna di carogne, vi sono ancora altre fortezze e sentieri segreti per fuggire nelle montagne. La speranza ed i ricordi potranno sopravvivere in qualche valle nascosta ove l’erba è verde.’

E anche quelle di Gandalf sgorgano dalla mia memoria,
in risposta allo sguardo e alla voce :
‘Altri mali potranno sopraggiungere. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi.
Ma di tutte le cose di valore che in un momento come questo si trovano in pericolo, io mi preoccupo. E per quanto mi riguarda, non fallirò del tutto nel mio intento, dovesse anche perire Gondor, se questa notte apparirà qualcosa che possa ancora crescere in bellezza e portare frutti e fiori nei tempi a venire…’

Apriamo le porte
chiudiamo le porte
passiamo le porte
e alla mèta dell’unico viaggio
né città
né porto.

Il treno deraglia
la nave naufraga
l’ aereo s’abbatte
un biglietto è stampato sul ghiaccio.
Se potessi
ricominciare o no questo viaggio
ricomincerei.

Nazim Hikmet



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