Il nocciolo della questione – II parte ( di Effe)
Creato il 04 gennaio 2014 da Conflittiestrategie
per la 1a parte http://www.conflittiestrategie.it/il-nocciolo-della-questione-di-effe
Abbiamo visto, nella prima parte di questo articolo, come la teoria del conflitto avanzata da Gianfranco La Grassa poggi su due pilastri di cruciale importanza: (a) il ruolo decisivo degli agenti strategici dei gruppi dominanti, che orientano il conflitto per la supremazia sociale globale nel modo di produzione capitalistico, e (b) la ricorsività di fasi mono e poli-centriche.
Vediamo adesso, in modo molto conciso per ragioni di tempo e di spazio, quali teorie della stessa “famiglia” (per comodità, chiamiamola sociologia del conflitto) convergono su questi due punti. In seguito, chiuderemo cercando di mettere in luce come l’elaborazione lagrassiana, muovendo da premesse marxiane, apra nuove strade per comprendere il mutamento sociale, sul piano politico, economico e strategico-internazionale, all’interno della tradizione della teoria del conflitto.
Innanzitutto, si tenga a mente che in una prospettiva di “accumulazione teorica” il fatto che teorie diverse elaborino ipotesi molto simili o convergenti è buon segno: tali ipotesi sono “sulla buona strada”, pur se sempre provvisorie (falsificabili e quindi scientifiche). Ciò significa non certo che i teorici in questione siano poco originali, bensì che partecipino di una tradizione di pensiero (in questo caso la teoria del conflitto) che si dimostra feconda, pur nelle sue diverse articolazioni (per esempio il marxismo, il neo-weberismo e il materialismo evoluzionista sono tre distinte correnti che tuttavia assumono il conflitto sociale come motore primo del mutamento storico). In questo senso diciamo subito che il pensiero di GLG, saldamente ancorato al materialismo e al primato del conflitto strategico, è un eccellente antidoto al delirio soggettivistico e volontaristico del pensiero post-strutturalista e post-moderno, vero e proprio veleno incapacitante, derivante dalla putrefazione di gran parte del vecchio marxismo. Su questo torneremo nelle conclusioni.
Gli “agenti strategici” dei dominanti, il conflitto e le sue conseguenze
Nei settori politico-militari e industrial-finanziari, i gruppi dominanti sono guidati da veri e propri “agenti strategici”, cioè da ristretti gruppi di persone che orientano il conflitto. Quest’ultimo è condotto in primo luogo contro altri dominanti, cioè soprattutto contro rivali geopolitici provenienti da altri poli di potenza, per la definizione di sfere d’influenza. Ma è condotto anche contro altre frazioni di classe dominante all’interno della propria formazione sociale particolare (o “complesso stato/società” come è forse più giusto chiamare lo “stato nazionale”). Infine, il conflitto si esplica anche “in verticale” fra dominanti e dominati, ma ciò avviene in modo acuto solo in alcune particolari fasi storiche, quelle rivoluzionarie (che possono concludersi col successo o l’insuccesso del tentativo rivoluzionario). Gli agenti strategici dominanti, nel modo di produzione capitalistico, sono coloro che hanno la possibilità di orientare la competizione, sia su scala globale che regionale o nazionale, non tanto perché possessori dei mezzi di produzione, quanto perché in grado di deciderne l’uso in un quadro politico-strategico complessivo in cui le leve dello stato rimangono decisive. Sta qui una differenza decisiva con ogni pensiero economicista e in particolare con varie recenti evoluzioni (o meglio involuzioni) del marxismo. Questo è anche uno dei punti di convergenza decisivi fra La Grassa e alcuni neo-weberiani [1].
Il conflitto inter-dominanti è quello più importante, contrariamente a quanto ipotizzato dal marxismo “ortodosso”, in quanto risulta decisivo per almeno tre tipi di mutamento sociale: in primo luogo, per il cambiamento nella supremazia geopolitica e geoeconomica su scala mondiale; in secondo luogo per le “rivoluzioni” tecnologiche (propiziate dalla necessità di vincere la competizione militare ed economica), con decisive implicazioni socio-economiche all’interno delle varie società; in terzo luogo per il crollo di alcuni regimi e il mutamento sociale rivoluzionario all’interno di alcuni stati.
Su questo punto, l’ipotesi lagrassiana di preminenza del conflitto politico-strategico sulla lotta di classe e del ruolo degli agenti strategici dei dominanti sui puri e semplici “capitalisti” è in linea con il pensiero neo-weberiano di Theda Skocpol [2]. Questa studiosa rilevò come il pensiero dominante degli anni ’60-’70 sulle grandi rivoluzioni (francese, russa, cinese) aveva mancato di analizzare a dovere il ruolo degli stati (o meglio, dei dominanti politici all’interno degli stati) nei processi rivoluzionari. Attraverso una ricostruzione storica comparata delle tre grandi rivoluzioni, Skocpol arrivò alla conclusione che i processi rivoluzionari si concludono con successo quando tre condizioni sono presenti: 1) una crisi fiscale dello stato giunta a un tale livello di acutezza che la frazione dominante non riesce più a controllare le “forze della coercizione” (esercito, polizia, servizi segreti); 2) una frattura interna alla élite dominante derivante in gran parte da forti divergenze su come affrontare crisi economiche e/o militari; 3) una mobilitazione dal basso delle classi popolari resa possibile dalla forte crisi politico-economica, dallo sfaldamento delle strutture statali e dalla organizzazione di tali forze popolari da parte di quelli che potremmo chiamare “agenti strategici rivoluzionari”.
Skocpol ipotizzò che la competizione geopolitica giocasse un ruolo decisivo nel produrre le due prime condizioni. Innanzitutto, le rivalità politico-militari per il controllo di aree remote e per le spese militari, se non coronate da successi decisivi, alla lunga “sfiancavano” gli stati producendo crisi fiscali difficilmente risolvibili (principio simile a quello di “iper-estensione imperiale” teorizzato dallo storico britannico Paul Kennedy [3]). Inoltre, tali rivalità geopolitiche, provocando gravi problemi strategici e le appena menzionate crisi fiscali, inducevano l’élite dominante a spaccarsi su come meglio affrontare la “convergenza di crisi”, spesso con esiti fatali e aprendo quindi la strada a bruschi mutamenti politici.
Il piano strategico-geopolitico internazionale quindi, condotto indubbiamente da agenti strategici dominanti per la supremazia, gioca qui un ruolo ben più decisivo di quello ipotizzato da Marx ed Engels ma soprattutto da parte dei loro spesso scarsi epigoni. Il conflitto di classe fra dominanti e dominati, che spesso appare essere in prima linea sulla scena storica della rivoluzione, è in realtà “latente”, si attiva in determinate condizioni, in gran parte create dall’incessante scomposizione-ricomposizione di fragili “equilibri” di potere fra dominanti (in realtà, meglio sarebbe dire “intensità di squilibrio”, a significare che il sistema non è mai veramente in equilibrio).
Questo fatto ha una importanza teorica enorme. In effetti, se gli agenti strategici perseguono i propri fini di potere politico-economico-sociale, ciò significa che il ruolo dell’azione umana è concettualizzato in modo simile a quanto fatto dall’individualismo metodologico (teoria della scelta razionale, sociobiologia, ecc.) ma senza perdere di vista però l’importanza decisiva del gruppo, cioè in questo caso, sia detto per comodità, della frazione di classe dominante al potere, in lotta perpetua contro altre frazioni.
Su quest’ultimo punto, il “materialismo evoluzionista” di Stephen K. Sanderson [4] è convergente con la teoria degli agenti strategici: poiché questi ultimi traggono beneficio dalla propria posizione, egli spiega, i membri dei gruppi socialmente dominanti sono altamente motivati a sfruttare tale vantaggio, mantenere o aumentare il potere. Ciò spiega “in controluce”, su basi “sociobiologiche”, il perché invece i “dominati” siano quasi sempre scoordinati, male organizzati, sfilacciati e facilmente manipolabili da minoranze attive che agiscono per conto dei dominanti.
La vita sociale, quindi, è influenzata in modo “sproporzionato” dagli interessi e dalle azioni dei gruppi dominanti. La struttura profonda all’origine del comportamento umano e del suo animus dominandi è, per Sanderson, l’individuo che tenta di massimizzare le proprie possibilità di sopravvivenza e riproduzione – una tipica spiegazione “sociobiologica” di impronta darwiniana. Per La Grassa il “fuoco” si sposta sui gruppi di potere e non vi è un fondamento evoluzionista del comportamento di tali gruppi. Resta il fatto che il materialismo evoluzionista concorda con le ipotesi di GLG nel senso che le strategie e gli interessi dei dominanti, e i conflitti che discendono dal dispiegarsi di tali strategie, contano più del conflitto fra dominanti e dominati nel determinare il cambiamento sociale e politico.
Fasi monocentriche, fasi policentriche: le polarità geopolitiche e il loro riflesso economico
Per La Grassa, la storia del capitalismo è colta meglio dal concetto di ricorsività che non da quello di “stadi successivi”; in altre parole è sbagliato concepire fasi “supreme” del capitalismo come nella tradizione marxista-leninista, ma occorre prestare attenzione alle configurazioni di potenza fra poli capitalisti. In questo senso si potrebbe pensare a una convergenza fra il pensiero lagrassiano e quello del “sistema-mondo” (Wallerstein, Arrighi, Chase-Dunn, ecc.).
Tuttavia, ciò è a nostro avviso una illusione ottica. Da parte di questi ultimi studiosi non viene infatti dato abbastanza peso al ruolo perennemente “squilibratore” del conflitto fra agenti dominanti. Il neo-marxismo della scuola di Wallerstein appare ancora eccessivamente funzionalista e “segretamente” teleologico, poiché anche se spesso in controluce appare l’ipotesi di un possibile esito “salvifico” trasformativo della competizione geoeconomica mondiale in un sistema-mondo socialista “finale” in equilibrio. Tale ipotesi è non solo assente, ma anche esplicitamente esclusa da GLG, per il quale invece – ci azzardiamo a sintetizzare – in linea con il pensiero realista e con quello neo-weberiano, un eventuale modo di produzione post-capitalista avrebbe comunque una struttura sociale conflittuale, seppure diversa e auspicabilmente attenuata, con stratificazione fra dominanti e dominati (di tipo diverso) e squilibri competitivi.
Invece, la ricorsività ipotizzata da GLG è pienamente concepibile sul piano del ragionamento geopolitico, soprattutto di stampo neo-weberiano: sul medio-lungo periodo, la polarità del sistema muta da multipolare a bipolare (o addirittura unipolare) grazie al prevalere di poli favoriti da condizioni geografiche, tecnologiche, militari ed economiche, soprattutto in conseguenza di “guerre egemoniche ” (come le ultime due guerre mondiali e la guerra fredda).
Il “monocentrismo” nella teoria di GLG corrisponde a fasi geopolitiche in cui una potenza riesce ad attenuare il livello dello scontro perché talmente predominante sul piano politico-strategico-economico da avere la possibilità di coordinare (sia pure sempre in modo imperfetto e condizionato dagli squilibri sotterranei) gli alleati-competitori. Si veda per esempio la diplomazia del “Concerto europeo” nel XIX secolo e, in modo più completo, il multilateralismo delle istituzioni economiche “trilaterali” voluto dagli USA dal 1944 a oggi.
Anche qui appare evidente la distanza ormai netta fra La Grassa e i marxisti per almeno due fondamentali ragioni: 1) lo studioso italiano interpreta il ruolo della finanza come quello di un mezzo utilizzato dai dominanti principali nell’ambito delle loro strategie di potere e non come un soggetto che progressivamente tende a sganciarsi dalle forze “industriali” e dallo stesso stato che occupa il centro del sistema; 2) la configurazione policentrica discende da una autonomizzazione politico-militare tanto quanto economica da parte di alcuni outsider (Germania guglielmina, Giappone imperiale, Cina post-maoista, a esempio) [5]. Soprattutto, come rilevato nella prima parte di questo articolo, le grandi crisi come quelle del 1873-96 o quella in atto dal 2007 circa a oggi dipendono molto più dallo scoordinamento politico del campo economico-capitalistico, che non dal nefasto ruolo della finanza o dal sottoconsumo; in questo senso ancora una volta parte del pensiero geopolitico moderno è convergente con le elaborazioni teoriche del Nostro.
Conclusioni (provvisorie)
Le conclusioni qui di seguito sono solo alcune di quelle possibili dopo questa breve analisi comparativa; e sono soprattutto provvisorie, scritte per suscitare un dibattito teorico allargato.
I. L’incontro con la geopolitica e con altre tradizioni di sociologia del conflitto, per il pensiero di GLG e dei suoi allievi, è fecondo. La teoria degli agenti strategici e quella della ricorsività “di fase” nel sistema capitalistico trovano convergenze di sicuro interesse teorico. La geopolitica offre inoltre altre due prospettive, una analitica e l’altra strategica, in grado di arricchire la riflessione teorica: sul piano analitico, la geopolitica ci aiuta a formulare previsioni sulle condizioni della possibilità di successo da parte di questa o quella formazione sociale particolare, grazie alla valutazione di vantaggi e svantaggi “posizionali” e tecnologico-militari; sul piano strategico ci ricorda che le linee d’azione dei dominanti si iscrivono nello spazio tanto quanto nel tempo politico. Ne consegue che per capire alcune mosse si debba applicare il ragionamento geografico (perché proprio lì? per esempio: perché far saltare Gheddafi?).
II. L’atteggiamento scientifico adottato da GLG volto a capire come funziona il mondo e perché il mutamento avviene in un certo modo è in linea con un autentico spirito scientifico che contrasta con il moralismo di certa sinistra.
III. GLG però non diventa per questo un apologeta del capitalismo, cosa che lo distanzia nettamente da gran parte dei neo-weberiani e degli evoluzionisti; la poca attenzione rivolta ai dominati è in un certo senso una conseguenza della delicata fase storica in cui viviamo, dopo la disastrosa batosta rimediata dal movimento operaio e dal blocco sovietico.
IV.Nell’era delle farneticazioni post-moderne, decostruzioniste, logo-centriche ecc., vere e proprie frescacce che però coprono a dovere le malefatte dei dominanti odierni, il solido materialismo “conflittualista” di GLG è invece un antidoto al pensiero reazionario, mascherato da libertario, cui è approdata la squallida “sinistra” occidentale, che si presta a fare da sgabello alle peggiori avventure militari imperiali in nome di diritti umani concepiti ad hoc.
Il freddo, a volte aspro ragionamento geopolitico potrebbe sembrare frutto di semplice amaro disincanto e cadere anch’esso nella semplice apologia della potenza statale. Ma così non è. In fondo, se il pensiero stato-centrico neo-weberiano insegna qualcosa, è proprio che solo lo scontro geopolitico mette in moto le dinamiche in grado di squassare le strutture statali coercitive; chiunque coltivi speranze di mutamento politico-sociale non banale ha quindi l’interesse a propiziare in ogni modo la rottura del coordinamento monocentrico e l’innalzamento del livello di scontro. In questo senso, il cosiddetto “sovranismo” è un mezzo “di fase” necessario (ma non sufficiente) per procedere verso una possibile (non certa) apertura di possibilità.
F.
–
NOTE
[1] Su questo punto fondamentale si veda W. J. Mommsen, Capitalism and Socialism: Weber’s Dialogue with Marx, in R. J. Antonio e R.M. Glassman, A Weber-Marx Dialogue, Kansas University Press, 1985.
[2] T.Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, trad.it. Bologna, Il Mulino, 1981.
[3] P.Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, trad.it. Milano, Garzanti, 1989.
[4] S.K. Sanderson, Social Transformation: A General Theory of Historical Development, New York, 1999; e The Evolution of Human Sociality: A Darwinian Conflict Perspective, New York, 2001.
[5] Si veda anche, per una interpretazione storica e geopolitica della conflittualità inter-capitalistica che fonde in modo originale ragionamento geopolitico e teoria marxista, K.Van der Pijl, Global Rivalries from the Cold War to Iraq, Pluto Press, 2006.
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