Magazine Pari Opportunità

Il nostro nome per intero, a voce alta.

Da Suddegenere

Da un po’ di tempo, per me,  il primo dell’anno  è una festa speciale. Nel 2007 andavo a fare un tracciato in ospedale subito dopo aver consumato, come un’ incosciente, il classico pranzo luculliano di capodanno a casa della nonna: antipasto calabrese rinforzato, tortellini in brodo fatti in casa, qualche fetta di cotechino e zampone portati dagli zii di Modena, verdura soffritta in abbondante olio di oliva; riuscivo a rinunciare solo ai “divini amori”-dolci di mandorla e zucchero ipercalorici ricoperti di cioccolato bigusto.

Il tracciato non andava bene , ovviamente, e chiesta alla mia ginecologa la data del prossimo  controllo, mi sentivo rispondere “Tu ti fermi qui, fatti portare il borsone, ti do qualche ora per farti digerire qualcosa e poi facciamo nascere il bambino” . Panico totale. Non ero mica pronta a diventare madre. Mi accorgevo improvvisamente di non essere pronta, questo era il mio unico pensiero. La gravidanza non era stata decisa “a tavolino”, avevo lavorato mattina e pomeriggio senza fermarmi fino a un paio di settimane prima, non avevo avuto il tempo (e forse il coraggio) di pensare a che genere di mamma sarei voluta e sarei potuta diventare, non avevo passato quei nove mesi a cercare di capire di cosa ha bisogno un essere umano che si affaccia alla vita e a come sarei riuscita a dargli gli anticorpi senza trasmettergli le mie psicopatologie; io che avevo sempre fatto la funambula avrei dovuto aiutare un altro essere umano a vivere su questa terra , non come un inquilino o un villeggiante stagionale ma avrei dovuto indurlo ad avere rispetto di se stesso e degli altri, non essere troppo severa senza rischiare di viziarlo (troppo). A tutto questo pensavo mentre le ostetriche mi guardavano preoccupate pensando a quanto avrei vomitato (due giorni di seguito) dopo il cesareo e temendo una mia crisi isterica in sala operatoria per la spinale, che mi avrebbero dovuto fare ma che io non volevo proprio.

E invece non ho avuto nessuna crisi isterica, perché improvvisamente ho sentito piu’ che mai, in ogni cellula di me stessa, il peso e la forza del potere che risiede nel corpo delle donne, e ho pensato delirante all’ovvietà del tentativo di controllo di tale potere da parte delle religioni patriarcali ed alla responsabilità delle donne nei confronti della società che, lungi dall’essere quella  di svestirsi per la mostra-mercato di tette e culiche è una responsabilità prima di tutto nei confronti di se stesse-, è la responsabilità-che dovrebbe essere congiunta ma per lo piu’ non lo è- di educare altri esseri umani al rispetto ed alla costruzione di un mondo altro e tutto cio’ è qualcosa che possiamo e dobbiamo fare. Questo pensavo, prima di essere ricondotta alla realtà dall’anestesista che arrivava trafelata scuotendo la testa.

Pensavo che Piero mi aveva accompagnata ad ogni controllo, ecografia, persino ai prelievi del sangue ed ora mi sarei trovata necessariamente da sola, con l’incognita del parto e della vita. Stava per nascere un maschio ed io avevo ardentemente desiderato una femmina; forse perché cresciuta praticamente da sola con una madre giovanissima avevo chiara l’idea di quanto forte puo’ essere un rapporto tra madre e figlia, e sapevo che puo’ bastare uno sguardo per capirsi e fare esplodere la risata o il pianto. “Ci sarà da capirsi con un figlio”, ho pensato quando abbiamo saputo che a nascere sarebbe stato un bambino. E quando mia suocera, dopo la visita che confermava il sesso del bambino, mi ha accolta con la casa invasa di palloncini celesti e le lacrime agli occhi per felicità sono diventata furibonda: cosa avrebbe fatto-mi sono chiesta e le ho chiesto-se fosse stata una bambina? Avrebbe invaso la casa di palloncini rosa, mi ha risposto.

“””….La nutrirò di parole forti, di quelle parole che esistono per caricarle dei pesi che noi non siamo in grado da soli di portare.

Io non tacerò, e lei mi ascolterà.

E un giorno forse , quando ogni cordone ombelicale sarà creduto reciso, lei ritornerà a me sul filo di una storia e nella memoria di quel racconto capirà che nella vita non si nasce solo una volta.

Quel giorno diremo a voce alta il nostro nome per intero, e raccontare non sarà mai più un gioco da bambini.”””

Nelle parole di Michela Murgia è contenuto il mio Augurio, per tutte e tutti.


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