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C’è però una motivazione di fondo dei nuclearisti che mi incita a votare Si all’abolizione della legge nuclearista. Riguarda i poveri o i semipoveri. I metalmeccanici a milleduecento Euro al mese, o quelli in cassa integrazione a 900 o i precari a 400 (magari un mese si e uno no), o i professionisti a partita Iva senza ferie pagate e senza pagamento assicurato della malattia. Ecco tutti costoro e non i ricchi redditieri con la Ferrari facile sarebbero più colpiti, dicono i fautori del No, dall’assenza di una seria politica per il nucleare. Perché verrebbe a mancare una preziosa risorsa energetica, con gravi danni per l’economia e ripercussioni pesanti proprio per chi meno ha.
Certo è un argomento verosimile (a parte le considerazioni sui danni irreparabili annunciati dalla tragedia giapponese). E’ altrettanto certo che le cose non cambierebbero molto per quei soggetti sociali che abbiamo citato anche in caso di una moltiplicazione di fonti nucleari supersicure. I poveri e i meno poveri resterebbero tali.
E allora il problema è un altro. Un recente libro di Aldo Carra, “Oltre il Pil, un’altra economia” (Ediesse) riporta una citazione di Robert Kennedy, proprio sul famoso Prodotto Interno Lordo: “Non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago”. L’attuale indicatore insomma non calcola quel che non viene remunerato (cure alle persone, lavori domestici, attività sociali), non calcola il benessere da aria pulita, da mare limpido, da città senza traffico, dall’uso della rete. Bisognerebbe cambiare il Pil.
Un utopia? Resta il fatto che oggi il mondo ha raggiunto uno sviluppo tale che permetterebbe una distribuzione della ricchezza capace di fare star bene tutti: europei, americani, asiatici, nord e sudafricani. Senza bisogno di drammatici assilli nucleari, senza bisogno di trarre utili anche dall’acqua. E’ la via della sobrietà, dei consumi ridotti, certo. E della equa distribuzione dei redditi accompagnata da un equo riconoscimento dei diritti (perché senza diritti non si ottiene alcun reddito equo).
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