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Il Partito dei Pappagalli

Creato il 26 ottobre 2014 da Albertocapece

Il Partito dei PappagalliAnna Lombroso per il Simplicissimus

Una volta quando sfilava un corteo di lavoratori, disoccupati, senza casa, studenti, donne, c’era sempre qualcuno in cappotto di cammello, una signora col cappellino e la pelliccetta, indispettiti perché i manifestanti ostacolavano il loro affaccendarsi, che gridavano: ma andate a lavorare! Andate a casa, sfaticati!

Se ieri, andando verso Piazza San Giovanni,  non li abbiamo visti né sentiti è perché erano a Firenze, alla Leopolda. Se non c’erano fisicamente, erano abbondantemente rappresentati da quel palco e da quel parterre che fa spallucce a un milione di persone – illusione ottica, che con sovrano disprezzo dice che l’ascolterà – dopo aver deciso per noi quello che è meglio per loro, che ammette a malincuore che la piazza è un’espressione di democrazia – ed è per quello che loro stanno dall’altra parte, con un senato di nominati infilato in quella costituzione che ormai serve solo a rendere legale l’illegittimità, a ufficializzare la perdità di sovranità di Stato e popolo, con riforme dettate da una cupola extra e sovranazionale e da un vecchio pagliaccio cui cola il belletto ma ancora protervo e presente sul palcoscenico.

Il professionista in cappotto di cammello, la signora in pelliccetta, quella che una volta si chiamava maggioranza silenziosa ma che ha sempre gridato più forte con le ragioni dello sfruttamento, della sopraffazione, delle regole manomesse o dettate per garantire i loro interessi e privilegi, ha trovato casa, ancora più comoda di quella del grande costruttore di Milano 2, 3, dell’Aquila 4 e 5. I loro ambasciatori sono quelli che Renzi e i suoi pappagallini ammaestrati ci mostrano come in una sacra ostensione: gente che crea lavoro, gente operosa, gente che muove lavoro e ricchezza, gente che dialoga e ragiona sul necessario shock che rimetterà in moto il Paese – potenza degli ossimori – con una legge di stabilità, gente che fa il muso duro ai cattivi dell’Europa come in un western all’italiana.

Per i pochi che non hanno voluto vedere, per i pochi che hanno preferito non sapere, per i pochi che hanno creduto di avvantaggiarsi stando a casa, assistendo indifferente alla conversione di un’elite, di un ceto in marmaglia barbara, in cosca dedita all’espropriazione e poi alla liquidazione di beni, diritti, certezze, unicamente interessata alla conservazione delle proprie rendite di posizione, può darsi che la convention della Leopolda, i suoi business plan, le sue esposizioni del brand del partito della nazione, le sue tecniche di marketing servano.

Perché anche chi non lo desidera dovrà prima o poi interrogarsi su quanto e che lavoro attivi come un potente catalizzatore un finanziere che gestisce fondi, quindi non produce nulla se non transazioni aeree, immateriali e opache, magari dalle Cayman. Prima o poi dovrà chiedersi che sindaco è quello che si ostina a realizzare un’alta velocità sotto un prezioso e vulnerabile centro storico di una città d’arte, giustificando l’improvvida prosecuzione di un ancor più improvvido progetto, con l’impossibilità di sospendere dannosi lavori e smantellare pericolosi cantieri per via delle inevitabili multe e sanzioni, creando così un esempio trasferibile a Messina, in Val di Susa, a Venezia. Prima o poi dovrà chiedersi se quello che si propone come organismo liquido e nazionalpopolare darà la tessera richiesta a un ingombrante ma utile finanziatore che dal palco del suo stato generale spara la sua invettiva contro il  diritto di sciopero. Prima o poi dovrà chiedersi che quoziente di intelligenza ancor prima che di civiltà possieda degli amministratori locali che invece di risolvere i problemi li relega in bus differenziati, li circoscrive dietro alti muri, li condanna all’eterna discriminazione, anticamera di pogrom, esclusione, deportazione, processi peraltro avviati con successo dal primo fondatore, quel Veltroni che della cultura Usa ha mostrato di amare oltre al cinema e alla Coca Cola, l’indole all’apartheid, il radicamento del razzismo e della xenofobia anche in via amministrativa. Prima o poi dovrà chiedersi che Made in Italy promuove un imprenditore che sfrutta i suoi lavoratori, che propaganda tutti i più triti stereotipi cari ai master chef, come se la globalizzazione prima e l’abuso criminale del territorio non producesse parmesan con caglio di chissà d0ve, pomodori della terra dei fuochi, e come se a rilanciare l’immagine del Paese  bastasse portare le guglie del Duomo in America.

Prima o poi dovrà chiedersi con che quattrini, che sostegni, che favori e voti di scambio, su che tessuto di colpe e con che humus di misfatti contro il bene comune si siano creati questi imperi economici e politici, sia cresciuta questa generazione di vassalli e valvassori che hanno rimesso indietro l’orologio, altro che ora legale, riportandoci a un feudalesimo buio e spaventoso. Se il loro futuro è solo l’inizio, allora vien voglia di un po’ di passato, quando abbiamo avuto la forza del riscatto.

 


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