Proviamo a fare una breve riflessione su quanto è accaduto nel nostro Paese nelle due ultime tornate elettorali – quella amministrativa e i referendum -, concentrandoci sui dati obiettivamente più importanti.
Nel primo caso hanno vinto Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, De Magistris a Napoli: un importante avvocato, un giovane professionista, un magistrato; in altre parole tre personalità che non appartengono alla “classe politica” tradizionale (Pisapia è stato parlamentare, ma non è con questa cifra che è stato percepito dall’elettorato milanese).
In breve, tutti e tre – pur venendo da esperienze personali e professionali assai differenti – sono stati votati perché si sono presentati come portatori di novità rispetto alla configurazione politica esistente; come homines novi.
E presentandosi in questo modo sono riusciti a smuovere anche quella gente di sinistra, o di centrosinistra, che si era chiusa nell’astensione o in un vero e proprio distacco dalla politica.
È, precisamente, quello che a Milano, a Napoli o a Cagliari non ha saputo fare il centrodestra, che ha riproposto – come se nulla fosse cambiato – personalità della tradizionale nomenclatura, travolte da un’ondata di distacco, di astensione, di protesta, di perdita di voti, di cui non aveva saputo prevedere né la presenza né la consistenza, sia per insipienza che per mancanza di antenne.
Senza contatto con la realtà il centrodestra ha continuato a parlare un vecchio linguaggio, a dire parole vuote, puri gusci senza suono: i Rom, la moschea, lo “straniero”…
A differenza del centrosinistra, che però si è potuto giovare di quello strumento ambiguo che sono le primarie, le quali in questo caso hanno svolto una duplice funzione positiva: hanno generato un profondo mutamento di leadership rispetto agli assetti previsti, mettendo lo schieramento riformatore in grado di cogliere le trasformazioni in atto nelle varie realtà locali.
In questa situazione, il Pd di Bersani – segretario per fortuna senza carisma – ha potuto svolgere un compito tanto paradossale quanto importante: consegnando, attraverso le primarie, la guida dello schieramento a uomini provenienti da altri partiti ha dato un contributo essenziale al cambio, stabilizzando anche il quadro politico.
C’è stata una sorta di astuzia della ragione in questo processo: il Partito democratico, rinunciando alla propria leadership, ha consentito allo schieramento di centrosinistra di vincere.
È difficile dire cosa sarebbe accaduto se il Pd non avesse, con intelligenza, accettato questa strategia e si fosse raccolto solo intorno alle proprie bandiere; probabilmente a Milano il risultato sarebbe stato, almeno in parte, diverso. Così come, forse, sarebbe stato diverso il risultato del centrodestra se avesse potuto mettere in pista homines novi, senza ricorrere a personaggi ormai logori come Letizia Moratti o espressione del peggior ceto politico quali Gianni Lettieri.
In tutto questo, certo, ha pesato l’assenza di una alternativa reale nella destra, resa plasticamente evidente, da un lato, dalla crisi di Fini; dall’altro dalla impossibilità, in questo momento, per Tremonti di presentarsi come leader nazionale.
Anche a Napoli le primarie hanno dato un contributo essenziale al cambio, togliendo di mezzo quelli che erano comunque percepiti quali esponenti di una vecchia nomenclatura.
Da questo punto di vista non ci sono state differenze sostanziali tra Milano e Napoli.
In tutti e due i casi è esploso ed ha vinto il bisogno di una nuova politica, di un cambio – un bisogno che riguardava, con evidenza, tutte le forze politiche, anche quelle del centrosinistra. Con una differenza: a Milano le primarie hanno svolto questa funzione ex positivo, a Napoli ex negativo; ma il risultato è stato il medesimo.
Proviamo ora a guardare il risultato dei referendum.
È stata forte, impetuosa la partecipazione del “popolo” del centrosinistra. Ma fra i dati disponibili, quelli che colpiscono di più sono due: la partecipazione al voto di una parte del Pdl – nonostante il divieto di Berlusconi – e di una consistente parte di quello che viene definito il “non voto”, arrivato ormai a circa il trenta per cento dell’elettorato italiano.
Se questo è accaduto, significa che il bisogno di un cambio comincia a essere avvertito anche a destra e che anche quella parte degli italiani – di destra o di sinistra – che per disgusto o insoddisfazione si era ritirata sotto la tenda di Achille ha deciso di riprendere la parola e di far sentire la sua voce.
Naturalmente, nel generare questo risultato ha giocato virtuosamente la dinamica propria dei referendum: in questione erano infatti valori che si potrebbero definire pre-politici, pre-partitici, valori generali: l’acqua, l’energia, l’eguaglianza di fronte alla legge… Ma proprio questo indica quello che con questo voto ha chiesto la maggioranza degli italiani: individuare quei valori, e quei legami, che sono il prius del comune vivere civile; situarli in primo piano; sottolinearne la generalità e la centralità, pur muovendo da posizioni politiche diverse e, perfino, contrapposte.
E questo, a sua volta, significa che l’Italia comincia a essere stanca delle risse, degli scontri fra partiti, caste, camarille; vuole trovare un nuovo “punto dell’unione”.
Anche nel portare alla luce questo bisogno il Pd ha svolto una funzione preziosa: inizialmente distante dai referendum ha fatto poi confluire tutte le sue forze sul Sì, consentendo di battere il richiamo della foresta e contribuendo, al tempo stesso, a stabilizzare – come nelle amministrative – in forme più avanzate il quadro politico nazionale.
Ma se questa analisi ha un fondamento, oggi sono enormi le responsabilità delle forze interessate al cambio. L’Italia forse comincia ad uscire, faticosamente, da una lunga fase di quietismo, di indifferenza, di staticità, dal tempo della “democrazia dispotica”; comincia a cercare i modi e gli strumenti per aprire una stagione nuova.
Ma chiede, alla politica – e questo è il punto essenziale – una svolta profonda; chiede uomini nuovi, in grado di rappresentare e di dare esito politico a questo bisogno (e qui non è questione di generazione); chiede comportamenti nuovi; nuove forme di rapporto fra “governanti” e “governati”.
È una responsabilità che riguarda, in primo luogo, tutto il centrosinistra, se vuole candidarsi alla guida del Paese; e in modo speciale il Pd: rinunciando a dinamiche di ceto, è questo partito che deve essere, con generosità e lungimiranza, il motore del cambio.
Ma è una responsabilità che oggi riguarda anche le forze più aperte della destra, quelle che hanno a cuore il destino del Paese. La campana del referendum suona anche per loro.
Tante volte, con molta retorica, si è parlato in questi anni di fine della politica. Ma quella che è finita non è la politica; anzi: ciò che forse sta cominciando a venire nuovamente alla luce – lo dico senza enfasi – è proprio l’esigenza della politica, di una politica democratica.
Forse si sono cominciate a incrinare le “ferree catene” della democrazia dispotica, nascoste da “ghirlande di fiori” (direbbe Rousseau); ma per ricostruire l’Italia, dopo venti anni di berlusconismo, è necessario imparare la lezione delle amministrative promuovendo uomini nuovi e accogliere il messaggio del referendum valorizzando nuovi rapporti tra “governanti” e “governati” e nuovi “legami” sociali, politici e anche culturali, a cominciare dal “legame” fondamentale del lavoro.
È da qui che bisogna partire; non sarà né breve, né facile, né indolore.
(Michele Ciliberto – Ordinario di Filosofia – Scuola Normale di Pisa)