Magazine Diario personale

Il peggio di me

Da Lacapa

Quando andavo al liceo ci tenevo moltissimo a dimostrare che non ero una ragazza come tutte le altre. Miamiglioreamica diceva che eravamo le persone più ciniche che lei conoscesse, e con Èsolounamico passavamo interminabili pomeriggi a discutere di musica – partendo da Samuele Bersani a Fabrizio De André, arrivando fino ai Metallica – sentendoci migliori (sì, migliori, anche se all’epoca non avremmo mai avuto il coraggio di ammetterlo) della maggior parte dei nostri compagni di scuola.

La verità, però, era ben diversa. Io ero un’adolescente del tutto nella media. Guardavo Friends e Dawson’s creek alla tv, credevo che lo Stefano Accorsi de «L’ultimo bacio» fosse l’uomo perfetto (sì, lui, quello che tradisce la Giovanna Mezzogiorno più bella di sempre, quello che ha bisogno di perdere le cose per scoprire quanto ci tiene – che cliché!, quello che adesso se lo incontrassi gli spezzerei le gambe con una mazza chiodata), chiedevo a mia madre in regalo i cd di Robbie Williams e mettevo da parte i centesimi per comprare da sola gli album dei Green day nel negozio di dischi in centro con Miamiglioreamica, indossavo t-shirt dei Queen e studiavo a memoria le puntate dei Simpson, per citarle in scioltezza meglio di qualunque brano di letteratura italiana. Ero banale, normale. Ma le cose di cui sopra non le avrei rivelate neanche sotto tortura.

Siccome i miei genitori trovavano giusto che io passassi i miei sabato sera in casa, la prima volta che sono uscita con gli amici avevo sedici anni passati da un bel po’ e il coprifuoco a mezzanotte. E, visto che tutti quelli che conoscevo non si facevano vedere in giro prima delle dieci e mezza ma Padre non mi accompagnava più tardi delle nove, c’erano sere (una volta ogni due mesi, questa era la libertà che mi era concessa, vincolata ai voti nei compiti in classe di latino, greco e matematica) in cui passavo ore a camminare da sola per la città aspettando e sperando che qualcuno arrivasse in anticipo, o che nessuno mi vedesse da sola (perché poi avrebbero pensato che ero una sfigata, e una con la cintura nera con le borchie come me non poteva dare l’impressione di essere una sfigata). Avrei risolto un sacco di problemi se Sorella fosse stata mia complice e si fosse detta disponibile, almeno ogni tanto, a darmi un passaggio lei. Ma Sorella ormai la conoscete anche voi, quindi potete facilmente immaginare che una gentilezza di quel genere non me l’ha mai usata.

Forse è per questo che quando ho scoperto un po’ di libertà, quando mi hanno permesso di andare un po’ più lontano (la commozione quando ho preso in mano la mia patente è un bel ricordo) ho fatto tutto quello che credevo di essermi persa prima. Come i bambini a cui viene vietato il cioccolato e che un giorno trovano un barattolo di Nutella incustodito, lo svuotano tutto, fino all’ultimo cucchiaino, e poi si rotolano nel letto per il mal di pancia. «Abbiamo giocato abbastanza», mi ha detto Dearfriend Ballerina qualche sera fa. Eravamo sdraiate su un letto, poco prima di andare a dormire. E chiacchieravamo. Ricordavamo alcune delle cose che hanno fatto parte del nostro passato. A sentirci raccontare da fuori saremmo sembrate due quarantenni con un sacco di vita alle spalle. «Che casino», le ho detto parecchie chiacchiere dopo. Perché da un certo momento in poi, è sempre stato tutto un casino. Come un quaderno che parte con l’essere ordinatissimo e poi si riempie di scarabocchi e orecchioni sugli angoli.

Io – che prima facevo finta di essere dolcemente complicata ma ero lineare come un’autostrada tedesca – ora sono piena di scarabocchi e orecchioni sugli angoli (a parte che le orecchie a sventola ce le ho davvero, ma vabbè). Bevo troppo, mangio di più, sono disordinata, ho serie difficoltà a gestire le relazioni personali, non so stirare e chissà quanta altra roba brutta che in questo momento non mi viene in mente. Se fossi un altro, io mi starei lontanissima. Parlando con Dearfriend Ballerina ho contato uno dopo l’altro i cambiamenti e le assurdità in cui ho nuotato, ho elencato le situazioni che ho guardato da lontano e che ho vissuto di riflesso ma da molto vicino. «Quando eravamo piccole – mi ha detto lei – non avrei mai immaginato che poi ci saremmo ritrovate così». Alcuni minuti dopo, ci siamo date la buonanotte. Io non ho chiuso occhio per un po’. Ho pensato alla sua frase, al «così» di quell’ «esserci ritrovate così». Ho realizzato, prima che le pillole di valeriana, melissa e qualcos’altro facessero effetto, che quello che è rimasto di me è il peggio.


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