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Il pianeta selvaggio (1973) vince immediatamente per merito della, massì, voglio dirlo, toccante scena d’apertura che pone subito all’attenzione dello spettatore il focus del cartone animato. Si tratta di una metafora sul potere laddove in un pianeta lontano il genere umano è ridotto ad essere il lillipuziano passatempo di una progredita civiltà aliena, i Draag.
Pur trattandosi di un cartone e quindi per convenzione di persone… inanimate, la compassione per i nostri simili è reale perché li vediamo talmente minuscoli di fronte ai giganteschi alieni che si innesta facilmente una dicotomia del “più debole vs. più forte” la quale porta ad un’immediata identificazione coi protagonisti della pellicola.
Tuttavia quello che Laloux mette in piedi non è soltanto una riproposizione delle dinamiche che assoggettano le popolazioni più fragili, anche perché i Draag non sono prettamente dei cattivi, si sentono semplicemente superiori agli uomini e di riflesso li trattano come dei giocattolini o lucertole da combattimento. In quest’ottica il film assume più valore poiché traslando la situazione alla realtà viene portata ad esempio tutta l’imbecillità dell’uomo nel possedere i propri animali rubando loro quella dignità che comunque hanno e devono avere.
Ecco, Il pianeta selvaggio aldilà della veste fantascientifica è un’opera sottotestualmente animalista, e ciò non può essere che un pregio.
Eppure non si ferma a dare una lezioncina sulla bontà delle bestie, perché il protagonista novello Prometeo dimostra di come e quanto le basi per una società civile (/umana) si fondino sulla conoscenza che a sua volta, giusto per rimanere in territori ellenici, comporta l’assunzione di una techne capace di far progredire, di migliorare, di proiettare verso nuovi mondi materiali e non, i sopravvissuti della razza. Banale favoletta di senso morale? Può essere, teniamocela bene a mente però.
In quanto alla scrittura un leggero indebolimento lo si ha quando i Draag scompaiono per un po’ di tempo dalla storia – non so voi ma gli ottusi esseri umani mi annoiano da morire – così come è leggermente tirato via il finale dove tutto accade con una rapidità che poteva essere spalmata in più tempo.
In quanto alla tecnica di disegno mi è parsa qua e là datata, in particolare nelle scene di massa da cui traspare una certa legnosità. Però, la fantasia dell’autore nel dipingere la location è ammirevole, e non si contano le incredibili trovate durante la visione del film, una più sfiziosa dell’altra riuscendo a creare una vera e propria enciclopedia ygamiana.
Wikipedia ci dice che Tarsem cita questo film in The Cell (2000), onestamente non me lo ricordo, ma non mi stupirei. Anzi, il lavoro di Laloux sarebbe il degno predecessore della poetica tarsemiana per inventiva, estetica esplosiva e appagante sforzo immaginifico.
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