Qualche volta, aggirandomi tra gli scaffali di una libreria, mi capita di sfogliare romanzi i cui autori appartengono a un genere particolare. Si tratta di solito di romanzi che fanno bella mostra di sé nel reparto delle novità, di solito romanzi di qualche autore straniero che qui da noi non lo conosce nessuno, di solito uno che qui da noi non lo conosce nessuno – d’accordo – ma che tutti dovrebbero conoscere, di solito uno che non lo conosce nessuno ma che, per il solo fatto di non conoscerlo, dovresti sentirti in difetto; per farla breve, uno che, nove volte su dieci, se leggi la quarta di copertina c’è scritto: “il più importante scrittore della sua generazione”. Quando mi capita di sfogliare il romanzo di uno così (uno talmente importante da aver messo in riga tutta una generazione, una generazione che spesso coincide con la mia, ma che se poi coincide troppo spesso con la mia, allora vuol dire che gli scrittori “più importanti” della mia generazione sono più di uno, e quindi non c’è unanimità di giudizio su chi sia effettivamente il “più importante”, perciò tutta questa storia del “più importante” scrittore della mia generazione si riduce a una sgonfia scemenza), ecco, mi capita di fare un pensiero sedizioso. Il pensiero è questo: quando scrivono “il più importante scrittore della sua generazione” non gli fanno un favore. Perché gli mettono contro una generazione.
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