Anna Lombroso per il Simplicissimus
Qualcuno si dice compiaciuto che il premier ipercinetico stavolta sia parso più disposto al negoziato, non importa se per autentica consapevolezza che quello della scuola è un contenuto cruciale della sua propaganda – ma è improbabile, se invece l’attenzione rivolta ad alcuni soggetti: insegnanti e studenti, come meritevoli di ascolto, rispetto ad altri, molesti orpelli di un passato arcaico: i sindacati, non nasconda semplicemente il solito intento divisivo – ed è probabile. Oppure se si tratti di un calcolo, quello comunque di dare un po’ di guazza a un segmento se non influente, certo consistente dell’elettorato del Pd, sia pure in presenza di una legge elettorale che fa del voto una festa dell’elettore che conta quanto quella del papà, una celebrazione commerciale da solennizzare con apposite colonie e cioccolatini prodotti e forniti senza gara d’appalto dal suo norcino imperiale.
Beato candore. Nulla incoraggia a pensare che la nuova e sorprendente dedizione all’ascolto e al dialogo sfoci in qualcosa di più di qualche elargizione magnanima, di quelle pensate proprio per incrementare differenze e disuguaglianze, a quello si a quello no, di qualche concessione arbitraria, di quelle che fanno sentire il preside d’Italia splendido e munifico. E non solo perché per fare la buona scuola occorrono quattrini. Proprio Diamanti su Repubblica, che come un fresco Pangloss distribuisce perle di ottimismo sulla fiducia incondizionata che gli italiani riservano alla nostra istruzione pubblica e ai suoi operatori, ricorda che il nostro Paese impiega il 4,2% del proprio Pil nell’istruzione pubblica, al ventitreesimo posto in Europa. Ma ciononostante ha buoni insegnanti, alimenta buoni studenti, che diventano buoni diplomati, laureati, e “buoni ricercatori, dice, “ricercati” dovunque.
E, infatti, li trovi dovunque. Nelle università, nelle imprese, nei centri studi di tutto il mondo”. Fuorché da noi si direbbe. Dove anche grazie alla riforma saranno non solo esclusi ma anche con molte probabilità, ostacolati ed osteggiati, perché vocati a prestazioni eccezionali, fuori dalla norma, portatrici di idee, aspirazioni, progetti di vita altrettanto speciali e quindi anticonformisti, apocalittici, alla lunga, eversivi.
Non sono una fan della contrapposizione manichea tra una classe politica tutta viziosa, disonesta, incompetente e opaca, e una società civile virtuosa, irreprensibile e incorruttibile.
Nella grande manifestazione del 5 maggio, c’erano i bravi e responsabili genitori che poi però vanno a tutelare a suon di minacce il delfino bullo, quelli che in pubblico esprimono riprovazione per le nuove attribuzioni dei presidi padroni, salvo contare in privato di ricorrere alle loro raccomandazioni a protezione di rampolli non segnati dal tocco magico del talento per gli studi. E c’erano tanti architetti che sognavano di diventare Le Corbusier e guardano all’insegnamento di applicazioni tecniche come a una abiura frustrante a avvilente alle loro ambizioni. E molte donne che hanno ritenuto la docenza come a una mezza sòla, come si direbbe a Roma, un part time rispetto a quello primario di madri, cui dedicarsi con oculato risparmio di sé. E anche molti studenti fannulloni, qualcuno dei quali incantato dalle selezioni e dalle scalate ai talent, o demotivato dalla prospettiva di una brillante carriera in un call center o di pizzaiolo a Londra, o di raccoglitori di cipolle in Australia. Senza riservare loro troppa indulgenza, è equo attribuire queste pratiche di malcostume, declinate nel privato come nel pubblico, al consolidamento di familismo e clientelismo, antichi caratteri peculiari della nostra autobiografia nazionale, rafforzati dalla incertezza, dalla precarietà che legittima il ricorso a scorciatoie e protezioni, alla rarefazione del lavoro produttivo e delle garanzie conquistate, che ha colpito le professioni intellettuali e l’occupazione femminile, alla necessità imposta alle donne di sostituirsi al Welfare cancellato. E alla proposizione di modelli esistenziali basati sulla fidelizzazione, sui valori aziendali del conformismo, dell’ambizione e dell’ubbidienza.
Lo so, sono considerazioni banali, ma spiegano in larga parte l’astensione da battaglie e rivendicazioni sociali degli insegnanti, costretti al brusco risveglio dalla abolizione di piccoli privilegi e sicurezze, persuasi a oltrepassare i cancelli del corporativismo dalla pressione di un precariato che ha contagiato con incertezza e mortificazione tutto il corpo docente, motivano la tardiva consapevolezza di genitori, provocata in gran parte dalla recente coscienza del peso di costi un tempo sopportabili, a fronte di una progressiva e inarrestabile dequalificazione dell’istruzione, della condizione di dissesto delle scuole, paragonabile a quella del territorio, dalla percezione che ogni sforzo per nutrire il potenziale competitivo dei figli è vano, a fronte di disuguaglianze invalicabili e dinastiche. Per non parlare della sofferenza di ragazzi che si sentono già condannati a tutte le possibili servitù, all’asfissia di vocazioni e attese.
Ed è altrettanto banale il sospetto che i favori concessi dal premier più gloriosamente ignorante degli ultimi 150 anni e fiero di esserlo, saranno marginali, qualche bistecca sotto forma degli ineffabili 80 euro, qualche “grazia” gerarchica. Perché la scuola che Renzi vuole è proprio quella che sigilla la cultura come affrancamento dallo sfruttamento, l’istruzione come riscatto dal ricatto, il talento come affermazione di personalità e valori della persona, il ragionare e il collaborare insieme come presupposto della coesione sociale, minacciata dalla chiamata diretta dei docenti da parte del preside-manager, dalla sua gestione accentratrice di premi e incentivi , dell’assoluta discrezionalità che dovrebbe imperare a copertura del male vero che affligge la scuola, la condizione di indigenza del suo personale, l’oltraggio della loro dignità. Cui il piccolo Cesare mette mano con il ricorso alla stessa modalità che applica nelle sue riforme, l’uso del comando, esercitato da podestà, da preside di domani, da premier, da monarca, nei confronti del Parlamento, della timida opposizione, della pavida informazione, trasferita in leggi e misure, come nel Jobs Act, che attribuisce al padrone potere di assunzione ma soprattutto di libero licenziamento, come nella riforma elettorale, che riunisce nelle mani dell’uomo forte di una maggioranza uscita da elezioni già falsate e pilotate all’origine, tutti i poteri, in forma assoluta e indiscutibile.
E non c’è da stupirsi perché il modello autoritario cui si vuole piegare la società è quello imposta dall’assoggettamento implacabile e spacciato come ineluttabile al tallone di ferro dei poteri economico-finanziari, al progetto della sostituzione del sistema democratico con il format organizzativo delle imprese multinazionali, dell’adeguamento del mercato del lavoro alla nuova, o antica, fisionomia di suk di schiavi, della regolamentazione e stabilizzazione della tendenza privatistica dello stato sociale, delle carte costituzionali, della rappresentanza.
Quella manifestazione, con tanta gente diversa, tante voci, potrebbe restituirci il senso perduto di parole come “lotta”, “sciopero”, “resistenza”, “dignità“, “democrazia”. Siamo un popolo bestialmente diviso, quasi incapace di trovare una simpatia unitaria. Ma forse riusciremo a trovarla questa unità di sentire intorno ai figli, quelli nostri, quelli degli altri nei quali c’è sempre, ostinatamente, un po’ di noi, delle nostre illusioni e della nostra collera.