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Il preside e il vecchio pazzo

Creato il 21 ottobre 2010 da Fabry2010
Umberto Saba-Vittorio Sereni, Il cerchio imperfetto. Lettere 1946-1954, a cura di Cecilia Gibellini, Milano, Archinto, 2010.

U. Saba

Umberto Saba

«Si erano incontrati la prima volta, fugacemente, nel 1939, in casa di Giansiro Ferrata. Ma è nel ’45, dopo un nuovo incontro in casa di Luciano Anceschi, che tra di loro nasce un’amicizia, da allora tenuta con lealtà per tanti anni, di cui questo carteggio è la luminosa prova»: così si apre la densa e informata introduzione di Cecilia Gibellini alla corrispondenza tra Umberto Saba e Vittorio Sereni, pubblicata da Archinto sotto il titolo Il cerchio imperfetto per le cure della giovane studiosa bresciana, già impeccabile editrice d’uno dei più bei carteggi dell’altro secolo, quello tra Antonio Pizzuto e Vanni Scheiwiller (Le carte fatate, Milano, Libri Scheiwiller, 2005).

Un corpus di 58 missive — 39 di Saba, 19 di Sereni, conservate rispettivamente nell’Archivio Vittorio Sereni di Luino e nel Fondo Manoscritti dell’università di Pavia — che copre un arco compreso tra l’immediato dopoguerra e i primi anni Cinquanta: periodo, com’è noto, più che decisivo nella storia umana e letteraria d’ambo i corrispondenti.

Ne scaturisce un ritratto vivo e per molti versi sorprendente dei due poeti, antipodi se altri mai, l’uno titolare della cosiddetta “linea sabiana”, l’altro annesso all’opposta “novecentista”. Un Sereni — malgrado l’estrema durezza del Triestino — sempre misurato, conciliante e devoto, incapace di passare al tu, totalmente privo d’autostima, ancora incerto sulla strada da intraprendere benché avverta invincibile il richiamo della poesia («Non ho nessuna fiducia in quello che faccio: idee e propositi sì, molti, ma mai nessuno va a segno perché l’ho appena pensato che già non m’interessa più»; «Ci dev’essere qualcosa che non va, qualche molla rotta»), contro un Saba acido, incredibilmente cinico, sprezzante verso tutto e tutti («Io non ho nessuna stima dell’Italia, che mi è, spiritualmente, un paese troppo inferiore»; «Voglio che fra 40-50 anni […] gli italiani scoprano che, nell’epoca più funesta della loro storia, c’era un italiano, uno solo e periferico, che … aveva capito qualcosa»), tossicomane all’ultimo stadio («Disgraziatamente, mi sono lasciato prendere la mano dalla morfina ed ho già superato i limiti tollerabili»; «dispiaceri pubblici e privati hanno finito con l’ammazzarmi. Sono dovuto ricorrere all’oppio, e, da allora, fu finita»), eterno scontento e aspirante suicida («temo tu non possa figurarti la fatica, l’angoscia che provo a sopravvivere»; «E vorrei che — ma davvero — tu pregassi per me Dio, che mi tolga una buona volta dalle spalle questo zaino della vita al quale più non resisto»; «penso continuamente al suicidio»), e soprattutto crudele fino al sadismo nei confronti del giovane amico sia come poeta («Le tue nuove poesie sono poca cosa; sono messe assieme coi tuoi vecchi difetti, con appena qualche accenno alle tue qualità»; «dovrei dunque dire del tuo nuovo libro quello che avrei detto del vecchio: un po’ bene e parecchio male») — al punto da riscrivere, snaturandoli, alcuni suoi versi —, sia come fervido lettore e recensore del maestro, quasiché il ruolo del critico dovesse esaurirsi (ciò rivela la stupefacente approssimazione delle competenze estetiche sabiane) nell’obbligo di riferire pedissequamente le intenzioni dell’autore: «Il tuo articolo aveva il difetto di voler dir troppo in una colonna e mezzo di giornale, inoltre di essere poco, troppo poco “giornalistico”. […] Insisti inoltre, secondo me a torto, sulla “prosa” e sui versi “appena sollevati da terra”: tutto questo nasconde un equivoco molto italiano, e molto pericoloso per la mia poesia che non so fino a che punto sia, per il contenuto, italiana. Inoltre non merito la lode di aver saputo […] “superare di colpo il pericolo di esaurirmi pittoricamente o didascalicamente nel pretesto” […]. In realtà io non ho né saputo né voluto nulla di tutto ciò; non avevo quindi nessun “pericolo” da superare».

V. Sereni

Vittorio Sereni

E il Sereni prosatore, che trasfigura un episodio reale avente Saba come protagonista (Angeli musicanti, 1947), non trova migliore accoglienza, per motivi che — in bocca ad uno dei maggiori poeti del Novecento — lasciano letteralmente basiti: «Quando si racconta un aneddoto, e che questo aneddoto [sic] si riferisce ad una persona conosciuta e “difficile”, bisogna attenersi il più possibile alla realtà oggettiva. Ogni deviazione, a destra o a sinistra, falsifica la figura che si vuole mettere in luce. L’arte, in questi casi, è di non dire una parola di più o di meno: l’autore deve completamente nascondersi nel fatto che narra: tanto più egli risalta, quanto meno devia e si nasconde nelle cose che dice. Tu hai fatto questo, ma hai voluto fare altra cosa ancora (sempre la benedetta letteratura) […]. Così come tu mi presenti, sono irriconoscibile. […] Sei stato […] un poco asino».

I toni del «vecchio pazzo», come egli stesso si definisce, si fanno a tratti così ingiustamente accesi e insolenti («Hai trovato una bella forma per comunicarmi che sei stato nominato preside. E ancora ti fai, alla tua età e con un simile onore, la vittima!») da incrinare — una e una sola volta — la proverbiale imperturbabilità sereniana: «Ma come mi conosce poco o come finge di non conoscermi! Io le voglio molto bene e la ammiro, ma questa lasci che glie la dica: lei ha il torto di prendersela proprio con quelli che le vogliono bene davvero. Ma lasciamo andare: lei continuerà a darmi dell’“italo pollo” e a pensare che usi modi subdoli per dire, con l’aria di lamentarmi, i progressi che faccio nella splendida carriera di professore».

Il volume è corredato da un’utile Appendice contenente otto testi cui si fa esplicito riferimento nelle lettere, tra cui una recensione di Saba al Diario d’Algeria risalente al 1947 e un’intervista di Sereni su Saba del 1978.

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